Con tacchi decisamente kinky, trionfano all’Elfo le adorabili Nina’s Drag Queens
Con tacchi decisamente kinky, trionfano all’Elfo le adorabili Nina’s Drag Queens. Nate al Ringhiera otto anni fa e viste di recente come Ciliegie cekoviane – la i al posto giusto, per non parlare delle parrucche -, la sfolgorante compagnia di drag porta in scena The Beggar’s opera proprio nell’anno brechtiano.
Ma stavolta si è visto più Gay che Brecht. Battutaccia. Eppure, se già la Dreigroschenoper del marxista tedesco è un remake dell’anti-opera satirica settecentesca di John Gay, non sarebbe giusto parlare di questa Dragpenny opera come un remake del remake. La regia di Sax Nicosia riparte dallo spirito dell’originale inglese. Lo spettacolo è elegante e affina il taglio eclettico e rutilante del gruppo, dalla fisionomia ormai ben riconoscibile. E da stravolgere qui c’è un testo già dissacrante e spurio per conto suo, affrontato con una buona padronanza di tutti gli ingombranti precedenti brechtiani, edulcorati per l’occasione dai ritmi e suoni della vita notturna en travesti.
Sono quasi enciclopedici gli infiniti riferimenti arcobaleno: da Monica Vitti a Rita Pavone, la Carrà, tantissima Bertè e una cornice mazziniana meravigliosamente prevedibile. La Mazzini viene rielaborata anche nell’unica, splendida esibizione vocale non in playback dello spettacolo. La regola è che le drag non cantano, interpretano. Ma l’eccezione è Lorenzo Piccolo, che chiude il primo tempo con Grande, grande, grande rivolta a Macheath prigioniero.
Sul palco tutte donne, «incredibilmente donne» direbbe Amanda Lear. Non sarebbe una novità per Polly, Jenny e Lucy. È servita invece più di una modifica per Tiger, qui Tigra, e per Peachum, deliziato dal nome Norma – forse un po’ Desmond, forse un po’ Jeane. L’unico maschio rimasto è Macheath: violento, irrequieto e «toro» (sostantivo divenuto aggettivo tra i più birichini).
Ma un maschio così schematico, senza neanche un briciolo di edificante femminilità, va per forza reificato. Quindi nessuna sorpresa che sia un cappio a impersonare Mackie, lo stesso cappio cui viene condannato a fine opera. Perché Mackie non è degno di passeggiare in tacchi sul palco, al più potrà servire come macabro ornamento per il décolleté delle ragazze – che arrivano a passarselo a turno tra le mani nella scena del bordello, con nuove sfumature di significato per Ricominciamo di Pappalardo.
È vaudeville quanto basta la scena contornata di cianfrusaglie vintage e sedie in formica, efficaci e polivalenti i patiboli fluorescenti, così come le luci e i costumi che sanno enfatizzare sia il glitter del cabaret più sfrenato, sia l’intima intensità di alcune autorevoli confessioni dal palco alla platea: le Nina’s ridono e si commuovono, così come il pubblico.
Forse c’è qualcosa di troppo nelle due ore abbondanti di durata: il ritmo non è sempre sostenuto e il finale rivela una punta di autocompiacimento. Ma mi sembrano critiche intrinseche alle soluzioni drammaturgiche delle Nina’s: non oserei mai chiedere a una drag queen di scendere prima dal palco.