Esce in Germania e Inghilterra, ma in Italia solo su dvd si potrà vedere “Eva Braun” di Simone Scafidi. Che spiega il suo racconto dell’Italia berlusconizzata
È il regista italiano più giovane a cui la Cineteca Nazionale di Roma abbia dedicato una retrospettiva, eppure il nome di Simone Scafidi rimane oscuro al di fuori degli ambiti più strettamente cinefili. 37enne, milanese d’adozione, ha esordito nel 2007 con Gli arcangeli, un film duro, feroce, a tratti disturbante. E in quasi dieci anni di attività ha saputo muoversi con disinvoltura tra lungometraggi, documentari, corti e serie per il web. Recentemente è stato in sala con Zanetti Story, ritratto celebrativo del leggendario, amatissimo capitano dell’Inter. A settembre uscirà invece Eva Braun, la sua ultima fatica, il cui sottotitolo recita: “Sex, Scandals, Politics: an Italian Story”.
Due film agli antipodi, come è evidente, che però aiutano a delineare il profilo mutevole di questo cineasta eclettico e sofisticato, colto e stravagante. Un regista che non ha paura di di osare, mettersi in gioco, e che non rinuncia mai al suo sguardo personale sul mondo. Il che ne fa, in definitiva, un autore autentico.
Repubblica, Libero, Il Fatto hanno definito Eva Braun il film sulle Olgettine e sul Bunga Bunga. È un’etichetta appropriata?
È servita sicuramente a far parlare del film, ma è vera solo in parte. Il mio non è un film sul Bunga Bunga, ma piuttosto sull’Italia del Bunga Bunga. Racconta un contagio: Berlusconi, Nicole Minetti e le Olgettine sono la punta dell’iceberg, ma mi pare che il modus operandi delle notti di Arcore si sia diffuso in tutti gli strati della società. Non a caso il protagonista Pier è lontanissimo da Berlusconi e i suoi ospiti non assomigliano affatto alle Olgettine. Non volevo raccontare una storia di “sgallettate” che cercano di arrivare al Consiglio Regionale della Lombardia o al bancone di Striscia la notizia, ma di artisti, imprenditori, intellettuali progressisti che, di fronte alla possibilità di prendere una scorciatoia, accettano compromessi col potere.
Ma chi è Eva Braun?
Il film si apre su due citazioni: una di Margaret Thatcher, l’altra di Errol Flynn. Un film che accomuna due personaggi così lontani non può che avere un titolo evocativo e fuorviante allo stesso tempo. Ma “Eva Braun” sono anche le ultime parole pronunciate nel film: una battuta detta con il sorriso, ma che dovrebbe far presagire sviluppi inquietanti.
Eva Braun è una parabola molto contemporanea sul potere, ma è come se si sviluppasse in una dimensione allegorica, trasfigurata. L’esatto contrario di un racconto da cronaca giudiziaria.
In una delle prime scene del film riconosciamo Via Olgettina, ma i riferimenti espliciti agli scandali di Berlusconi finiscono lì. Mi interessava piuttosto analizzare la percezione che lo spettatore si è costruito del Rubygate attraverso brandelli di cronaca, stralci di intercettazioni, menzogne incredibili. Così ho strutturato il mio film in maniera non lineare e cronologica, bensì attraverso un insieme di situazioni e quadri scomposti che insieme restituiscono il ritratto psicologico di un Paese.
Anche il sesso, che è molto presente, assume il valore di una messinscena, di una performance.
Eva Braun è un film sull’Italia delle menzogne, quindi la dimensione della messinscena è fondamentale. Cosa chiede Pier ai suoi ospiti? Non sesso, bensì performance sessuali, trasfigurazioni delle loro identità. Alcuni di loro vengono umiliati per far emergere la loro natura nascosta. Per altri, come Bea, forse l’unico personaggio sincero, l’incontro con Pier diventa una sorta di dura educazione sentimentale. Certo, se poi ripensiamo alle notti di Arcore, le cronache parlano di ragazze travestite da suora, da crocerossina, da Boccassini: oltre al sesso consumato, è presente una dimensione quasi carnevalesca.
Ma di sesso consumato non se ne vede tanto. Inoltre ci si trova di fronte a un erotismo che non simula mai il piacere dello spettatore, anzi lo mette a disagio, rompendo qualche tabù.
Eva Braun è stato prevedibilmente, ma erroneamente catalogato come un film erotico: non lo è affatto. Racconta piuttosto un Paese in cui il potere non sa più godere: penso che nemmeno nelle notti di Arcore ci fosse veramente piacere, piuttosto il patetico tentativo di mostrarsi ancora capaci di godere appieno della vita. Nel film nessun personaggio gode davvero. Solo alcuni flashback del passato ci mostrano i protagonisti Romy e Pier quando ancora sapevano vivere un sesso pieno d’amore, un sesso procreativo. Nel presente, invece, ogni atto sessuale rivela un risvolto di impotenza.
Al centro di tutti i rapporti del film c’è sempre il corpo, che diventa strumento di piacere nel suo essere manipolabile, dominabile. È come se il vero godimento di Pier derivasse dal poter disporre dei corpi altrui, più che da atti sessuali in sé.
Il corpo è centrale in questo momento storico. Ma Pier non va alla ricerca di una particolare bellezza fisica esibita, che magari ricalchi i canoni estetici della pubblicità. Al contrario, cerca persone che possano offrirgli stimoli intellettuali, e gioca a metterle in discussione servendosi delle loro corporeità. Vendendo il proprio corpo, i suoi ospiti credono di salvaguardare il valore delle proprie idee. In realtà, vendono anche la loro integrità.
Nel film ci sono tanti libri, che diventano veri elementi di sfondo nella villa di Pier. Inoltre i personaggi parlano quasi esclusivamente attraverso citazioni, alternando autori come De Sade e Bataille agli stralci delle intercettazioni di Nicole Minetti. Come ti sei orientato nella stesura di una sceneggiatura che mischia l’altissimo e il bassissimo?
È vero, i libri sono presenti, ma diventano arredamento. La cultura, in qualche modo, non serve più, è depersonalizzata, privata della sua utilità anche se è in bocca a tutti. I personaggi parlano sempre con parole altrui, che siano di Nicole Minetti e Sabina Began o di Bataille, De Sade, André Pieyre de Mandiargues. Sono costretti a farlo perché è preclusa loro qualsiasi forma di sincerità e autenticità. Tra i riferimenti letterali, Beckett è stato fondamentale, perché la sua scrittura sa alternare violenza e nonsense, comicità e caos. Beckett parlava di un mondo di “Pan, sperma e stronzaggine”: mi sembra una definizione perfetta per l’universo di Eva Braun.
Non ci sono solo citazioni letterarie: Eva Braun è ricchissimo di riferimenti filmici. In molti hanno trovato tracce del Salò di Pasolini, ma sembrano esserci pure echi di Walerian Borowczyk e persino di Sofia Coppola. Che cinefilo sei?
Nel film non c’è nessuna citazione cinematografica voluta. Mi sono limitato a portare quello che ho assimilato come spettatore. La scena onirica dell’orgia, per esempio, è nata dalla visione di un oscuro film italiano, Zelda di Alberto Cavallone: un’opera stranissima, erotica e drammatica allo stesso tempo, che si conclude con una bella immagine di orgia d’amore. Potrei anche dire che c’è tanto Hitchcock, riferimento che non verrebbe in mente a nessuno. Hitchcock costruiva spesso le scene partendo da un dettaglio o un primo piano, svelando progressivamente poi lo spazio circostante. In Eva Braun ho fatto lo stesso, per creare un’atmosfera di tensione, una certa attesa nello spettatore. Sono stati fatti paragoni con Pasolini, che mi spaventa un po’, col greco Lanthimos o il messicano Reygadas, anche con la Coppola. Eva Braun però non è un esercizio di citazionismo: nel film ho cercato di portare la mia cultura, la mia sensibilità di amante del cinema per dare forma a qualcosa, spero, di originale. A me piacciono i registi che hanno un tocco personale, un marchio riconoscibile, il cui cinema è in qualche modo irripetibile. Borowczyk è stato fondamentale nella mia formazione sentimental-cinematografica. È un autore colto, raffinatissimo, un grande esperto di animazione. L’hanno liquidato banalmente come regista erotico, ma in realtà è capace di superare ogni etichetta. Mi ha anche portato a conoscere de Mandiargues, da cui ha tratto diversi film. Mi piacerebbe molto adattare il suo Il castello dell’inglese, che alcuni considerano la vera fonte d’ispirazione del Salò pasoliniano. Ecco, Eva Braun è il mio Il castello dell’inglese.
Come si produce un film ai margini dell’industria?
Vorrei chiarire che io non punto alla marginalità. Anche quando ho fatto il mio primo film, Gli arcangeli, ho bussato alla porta delle più importanti case di produzione. Ancora oggi cerco l’industria: il film su Javier Zanetti, diretto con Carlo Sigon, è un esempio. Grazie a Zanetti Story sono diventato probabilmente l’unico regista off italiano che è arrivato al primo posto del box office. Ma chi avrebbe potuto produrre Eva Braun in Italia? Nessuno, neanche gli alfieri della produzione indipendente come Arcopinto. Eva Braun era un film “irrealizzabile”, perché contiene alcuni tabù che in Italia non si devono toccare. Banalmente, lo sperma: un trailer in cui si vedono schizzi di sperma non è accettabile. Infatti è stato rigettato da qualsiasi festival, perché è talmente altro che fa paura.
La lavorazione è stata particolarmente travagliata?
Sono riuscito a produrre il film solo perché ho avuto la fortuna di vincere un bando per l’imprenditoria giovanile: ho scritto la sceneggiatura sapendo su quanti soldi potevo contare e cosa potevo permettermi. Eva Braun è costato 30.000 euro, ma per fortuna sembra più ricco. Certo, tra un film come questo e un film italiano, pur piccolo, che riceve il finanziamento del Ministero, c’è un mondo in mezzo. Eva Braun è veramente un miracolo: per fortuna i mezzi di oggi permettono di ottenere comunque una buona qualità tecnica. Ricordo in particolare che il casting è stato durissimo, disperato. Ho ricevuto molti no, in parte perché il film era low budget, in parte perché era considerato troppo estremo. Grazie all’aiuto prezioso della casting director Valentina Materiale, alla fine ho trovato interpreti determinati, di grande talento, con cui è stato facilissimo lavorare. Tra i miei film, è quello di cui sono più soddisfatto riguardo la recitazione: come ha detto Woody Allen, non sono bravo a dirigere gli attori, quindi ho bisogno di prendere attori bravi.
Nonostante le difficoltà, Eva Braun è stato venduto in Gran Bretagna, Germania, Australia, Taiwan, Corea del Sud. E su Amazon le copie del dvd inglese sono andate sold out in 24 ore.
Paradossalmente il film ha trovato più soddisfazioni commerciali che festivaliere. È stato venduto in diversi paesi, persino in Inghilterra dove i film italiani sono spesso ignorati. In Germania il trailer ha raggiunto più di 300.000 visualizzazioni e sta andando bene: gli introiti del solo mercato home video tedesco coprono tutte le spese del film.
In Italia, dopo la presentazione in anteprima nella rassegna Il cinema italiano visto da Milano, il film uscirà l’8 settembre per Cecchi Gori, ma solo in dvd. La sala resta una chimera per un regista indipendente?
In un certo senso sì, ma il vero problema è capire se c’è un mercato alternativo. La sala ha funzionato per Zanetti Story, ma per un film come questo è più difficile. Chi andrebbe oggi a vedere Eva Braun? Probabilmente nessuno. Non mi pongo tanto il problema della sala, ma mi interrogo sui nuovi possibili canali di distribuzione. Pur nella marginalità punto sempre a trovare un pubblico, uno sbocco commerciale. I miei lavori futuri vorrei che fossero così: film con un marchio riconoscibile, ma progressivamente sempre più commerciabili. Per capirci, vorrei fare lo Spring Breakers italiano: un cinema che non è per la massa ma che può arrivare comunque a un pubblico. Se domani un produttore mi offrisse la regia di una commedia con l’ultimo comico di Zelig, accetterei: il primo compito di un regista è quello di non avere paura e di saper portare la propria visione in qualsiasi film.
Ultima domanda: il personaggio dell’aspirante regista che si offre a Pier pur di veder prodotto il proprio film è in qualche modo un tuo alter ego?
Il personaggio di Sara rappresenta le mie paure, i miei dubbi. Fare cinema, almeno per me, è come essere posseduti da un demone: bisogna essere un po’ pazzi, un po’ malati. Allora forse si può scendere a compromessi pur di arrivare a farlo. John Ford, Fritz Lang, Howard Hawks, lo stesso Hitchcock, hanno mai fatto veramente il cinema che volevano? Secondo me no, quasi mai. Lang in America non ha mai fatto un film come avrebbe voluto, salvo forse Sono innocente. Eppure sono riusciti a dire ciò che volevano. Io non inseguo la marginalità, non voglio diventare lo Stan Brakhage, il Guy Debord di oggi. Non mi interessa. Sono ambizioso, e forse anche presuntuoso, ma preferisco un cinema che possa arrivare al pubblico. Quanto agli aspiranti artisti che raffiguro in Eva Braun, sono lo specchio di un Paese senz’arte: mai sentiamo una canzone del sedicente musicista Matteo, gli scritti di Bea paiono sciocchezzuole senza spessore, il soggetto del film di Sara è a dir poco puerile. Il problema oggi è che l’arte è morta, non esiste più: lo stesso fare cinema è un atto di speranza, ma solo se uno riesce a mantenere la propria integrità.
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