Guardando a Expo 2015, la nuova edizione de ‘Il Mito della capitale morale” rilegge il contraddittorio ritratto della città
Diceva, nel 1980, lo storico Fernand Braudel: «La città più importante d’Italia, da tutti i punti di vista, è Milano; (…) se dovessimo essere ragionevoli, Milano dovrebbe essere la capitale del vostro paese». Il riferimento è a un primato che, avviato nelle stagioni dell’Illuminismo e del Romanticismo, si consolida all’indomani del processo unitario, quando Milano si autocandida ad essere la “capitale morale” d’Italia.
Oggi il tempo stringe e Milano lavora senza sosta per Expo 2015; in questo clima di assillante attesa, la collana dei Saggi Bur propone la riedizione, aggiornata e ampliata, del libro Il mito della capitale morale. Identità, speranze e contraddizioni della Milano moderna di Giovanna Rosa, docente di letteratura italiana contemporanea all’Università Statale di Milano, da sempre interessata allo studio della modernità letteraria ambrosiana.
Il mito della capitale morale 2015: una nuova edizione e una nuova prefazione che illustra le ragioni di un orgoglio cittadino che, pur con fasi di opacità e movimenti carsici, ha permeato la collettività ambrosiana e che torna a riecheggiare in occasione di Expo.
Il saggio è stato riscritto interamente rispetto alla precedente edizione (Edizioni di Comunità); il primo passo nell’operazione di riscrittura è stato quello di togliere le note, nell’ottica di una inclinazione saggistica diversa rispetto al libro di ormai trent’anni fa. La prefazione è stata pensata per chiarire la ragione più importante che aveva sollecitato la ripresa del libro: mi sembrava che Expo 2015 consentisse di rileggere il ritratto di Milano, nei suoi elementi di contraddittoria continuità, alla luce di un evento che, per il Dna intellettuale della metropoli, continua ad assolvere una funzione cruciale.
Cruciale. Come accadde nel 1881?
Io credo di sì, anche se il tempo che separa le due Esposizioni è molto lungo e molto diversa è la temperie culturale. La Mostra del 1881, che ritengo più rilevante rispetto a quella del 1906, cui si richiamano gli organizzatori di Expo 2015, sancì il primato di Milano, a vent’anni esatti dall’Unità d’Italia, sia in campo economico, con l’indicazione limpida dell’avvio del processo industriale, sia in quella che allora si definiva “la repubblica della carta sporca”, ovvero il sistema della stampa e della filiera editoriale. In quest’orizzonte, l’Esposizione 1881 rappresenta un caso esemplare, forse unico, in cui la classe dirigente della città dei ceti intellettuali si incontrano per elaborare un comune paradigma di valori, fondato sull’etica del lavoro produttivo: intraprendenza e solidarietà, tolleranza e orgoglio civico; serio e pratico buonsenso, operosità industriosa, nel riconoscimento di un bene comune. Fondamento della civiltà ambrosiana è l’impegno a coniugare la cultura umanistica con le “utili cognizioni” di un sapere “positivo”: solo così era possibile «convertire il mondo moderno in mondo nostro», per usare una bella espressione di Carlo Cattaneo.
È Roberto Sacchetti a illustrare l’operosa alacrità della “Repubblica della carta sporca”, in nome della quale la città vanta il suo primato di capitale morale: il giovane autore che giunge a Milano con un manoscritto in tasca scopre l’«inaspettata convivenza delle industrie del ventre con le industrie dello spirito». Un’immagine molto bella e suggestiva: è stato così anche per Tarchetti, per Verga…
Potremmo aggiungere che è stato così anche per tanti letterati novecenteschi: Bontempelli, Bianciardi, Buzzati, Oreste Del Buono, e molti poeti, Gatto, Sereni, Fortini e Giudici. L’immagine di Sacchetti mi ha sempre colpito per l’ottica di spregiudicata modernità che lo scrittore scapigliato, oggi dimenticato, aveva assunto: nel suo saggio, in Milano 1881, illustra le ragioni di forte attrattiva che la città anche allora mostrava: i giovani scrittori provenienti dalle lontane regioni del Sud, come Verga ma anche Capuana e De Roberto, o dalle zone più vicine, il Piemonte di Tarchetti e di molti scapigliati, giungono sotto il bel ciel di Lombardia per sfruttare le occasioni di lavoro offerte dalle “officine della letteratura”: allora si chiamavano Treves, Sonzogno e Hoepli, oggi si chiamano Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli; oltre, naturalmente, alle redazioni dei giornali, a partire dal Corriere della Sera, fondato nel 1876 da Torelli Viollier, anche lui milanese adottato, venendo da Napoli. L’altro elemento che Sacchetti valorizza è il riconoscimento che «Milano è la sola città italiana dove c’è un vero pubblico». Milano è la capitale della cultura perché offre un orizzonte d’attesa più ricco; poi non sempre gli scrittori sono capaci di rispondere alle attese di questo pubblico, che è anche formato da lettori con gusti un po’ conservatori e poco amante del nuovo e delle sperimentazioni. È anche questo il volto di una città troppo attenta alle cose pratiche, incline a non confrontarsi con i ritratti più inquieti e crucciosi: un nodo scorsoio che ancor oggi caratterizza la cultura letteraria italiana, vista dall’osservatorio privilegiato di Milano.
Valori sotterranei radicati, che le dinamiche storiche hanno nel contempo rafforzato e corroso, fino a costituire la figura stereotipata del milanese, affaccendato e operoso; per dirla con Gadda, tutto “famiglia e lavoro”.
È, appunto, lo sguardo corrosivo dei letterati, più radicati nella tradizione ambrosiana, a svelare le debolezze e le contraddizioni della mitologia ambrosiana: su tutti, Carlo Emilio Gadda con il ritratto delle “tribù politecniche” affidato ai “Disegni milanesi” dell’Adalgisa, i nostri Buddenbrook, come li ha definiti Alberto Arbasino. A conferma ulteriore della difficoltà per i nostri scrittori a “romanzizzare” la metropoli: la riedizione del Mito vorrebbe anche sollecitare una riflessione sul carattere peculiare di una capitale che continuando ad avere un ruolo di traino economico, fatica ad autoriconoscersi e autonominarsi, e continua a manifestare una riluttanza tenace a concedersi alle grandi narrazioni.
Molto importanti gli intellettuali; nel testo c’è una citazione di Franco Loi, che dice che «è proprio il nesso etnia-città che non ha mai avuto corso a Milano; da sempre la città assume e produce un tipo d’uomo che viene detto milanese anche se è nato in Francia come Henry Beyle». Al tempo stesso però noi sappiamo che Milano è una città che poco apprezza i suoi intellettuali: mi vengono in mente Gadda, Arbasino e, perché no, Michele Mari. Crede che questa possa essere una delle tante grandi contraddizioni della nostra città?
Credo che il bifrontismo continui ad essere un tratto costitutivo della nostra città: da una parte la Milano moderna è polo attrattivo per tutti i professionisti della cultura umanista. Tutti i nomi che appaiono nel Mito indicano che è qui che si gioca la partita per scrittori, autori, editor, grafici e architetti. Ne deriva, come ricorda Loi, il fatto che Milano non fonda mai la propria identità su tratti etnici; dai tempi del settecentesco Caffè e poi del romantico Conciliatore, Milano è patria della tolleranza e dell’accoglienza solidale, a patto, beninteso, che chi vi abita e vi lavora accetti l’etica dell’operosità produttiva. Ma è appunto su questo piano che si apre la contraddizione più accentuata: per un intellettuale umanista confrontarsi con l’esperienza della modernità significa anche scontare i prezzi imposti dalla modernità stessa: la “gran norma dell’interesse”, le dinamiche di produzione e consumo che comportano gli affanni della vita agra: nella Vita Intensa e Operosa, ce lo ricorda Bontempelli, non si sfugge all’incontro con i pescecani, che non curano e anzi deprimono ogni attività creativa e artistica.
Se Franco Loi, che arriva a Milano da Genova e usa il dialetto, legandosi ai grandi poeti dialettali come Carlo Porta e Delio Tessa, riconosce che «Milano è l’unica città dove si vede e si incontra il mondo», gli intellettuali milanesi doc, che più si riconoscono nell’illustre tradizione lombarda patiscono molto questa contraddizione. Così è per Gadda, che scrive l’Adalgisa quando ormai è lontano dalla sua “svergolata Milano”; così oggi è per Michele Mari, che idealmente si lega allo scapigliato Carlo Dossi, e a Manganelli e Arbasino, altri ambrosiani che hanno lasciato Milano per Roma.
L’impressione è che il saggio sia costruito intorno a una sequenza di libri, autori, editori ed è interessante notare come la mitologia ambrosiana prenda corpo dai volumi collettanei usciti in occasione dell’Esposizione del 1881.
Sin già dalla prima edizione l’intento era quello di delineare il panorama della civiltà milanese adottando una prospettiva capace di studiare il sistema letterario nelle sue funzioni, ruoli e mediazioni. Ecco perché il ritratto della mitologia ambrosiana non può prescindere dai libri cui è stato affidato; naturalmente tenendo conto che sono libri tra loro molto diversi: una cosa è analizzare i racconti della Scapigliatura, i romanzi di De Marchi e Rovetta, le opere di Bontempelli, Gadda e Testori; altra è mettere a fuoco le strategie compositive ed editoriali di volumi come Milano 1881 o Mediolanum, Milano sconosciuta di Paolo Valera, Abissi Plebei di Corio, o infine Il ventre di Milano, a cura di Cletto Arrighi. L’assunzione di questa prospettiva critica penso sia il modo più fertile per acconsentire al metodo “spinazzoliano”: la letteratura non è fatta solo di capolavori, di autori canonici, ma di opere collocate nelle diverse articolazioni del sistema librario.
Ultima domanda riguardo al sottotitolo: Identità, speranze e contraddizioni della Milano moderna. Abbiamo parlato d’identità e di contraddizioni; ma quali sono le speranze?
Nella prima edizione del Mito, il sottotitolo era Letteratura e pubblicistica a Milano tra Ottocento e Novecento: ad essere messo in luce il nesso problematico fra la serie letteraria e l’attività pubblicistica, a forte impronta positivistica. Ora, nella riscrittura, il proposito mirava a verificare il paradigma d’idee fondativo della mitologia ambrosiana: la rilettura dei volumi editi in occasione dell’Esposizione, si affianca ad altri fenomeni e tendenze che, per recto o per verso, rimandano a quel modello: dagli Scapigliati a De Marchi e nel Novecento, oltre il Futurismo e Tessa, Bontempelli, Gadda, Testori.
Al contempo, la riproposta del Mito, se era giustificata dal rapporto tra Esposizione 1881 ed Expo 2015, non poteva non fare i conti con la stessa immagine, molto controversa ovviamente, di capitale morale. Innanzitutto occorreva chiarire il senso autentico sia del sostantivo sia dell’aggettivo: ovvero quell’immagine sintetizza l’orgoglio tenace di una città che si è candidata, e continua a candidarsi, a essere la guida effettiva, non ufficiale, del paese, in una rivalità costante, ora implicita ora esplicita, con la capitale politica. In secondo luogo, ripercorrere le dinamiche sotterranee della civiltà letteraria e intellettuale della “città più città d’Italia” – come la definì allora Verga – significa interrogarsi dell’identità ambrosiana: un’identità, sia chiaro, mai definita in senso etnico.
Oggi l’orizzonte di Milano, per gli intellettuali umanisti, tende a virare sulle tinte livide del rimpianto e della recriminazione: ma io credo che non si possa perdere la positività del bifrontismo di questa collettività e civiltà intellettuale: Milano non è solo il “Milanin” dei Navigli, delle vecchie vie intorno al Duomo, la Milano che a tutti noi piace (perché, come dice Banfi, «i milanesi un po’ conservatori sono») ma è anche quella di piazza Aulenti, e dei nuovi grattacieli, che hanno distrutto uno dei quartieri caratteristici del tempo passato: l’Isola. La Milano che sta allestendo Expo è appunto la somma di queste contraddizioni, nel nodo aggrovigliato d’inquietudini e speranze, che sono un tributo di fiducia all’intellettuale della civiltà ambrosiana. Anche se, a voler ben vedere, non c’è molto su cui fondarlo: a questo proposito si rimanda alla piccola polemica in prefazione…
Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale, 2015 Bur saggi, pp. 318, 13 €
Foto di Alessandro, Milano Skyline
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