Wu Ming e la costruzione della storia

In Letteratura

la non celebrazione della Grande Guerra ne “L’invisibile ovunque” e la messa in scena di narrazioni non dominanti si risolvono nell’ammonimento a imparare a diffidare di quello che ci viene detto, non prendere tutto per buono, mettere tutto in discussione

Nel 1914, il primo anno della prima guerra mondiale, in Inghilterra non c’era ancora la coscrizione obbligatoria e le città venivano tappezzate di cartelli propagandistici come questo:

IWW propaganda

Molti si spingevano molto più in là, non era inusuale trovare frasi del genere indirizzate alle giovani donne di Londra: il tuo “best boy” indossa il Khaki [è arruolato, Ndr]? Se non lo è non credi che dovrebbe? Se non pensa che tu e il tuo paese siete un degno motivo per combattere, tu pensi che lui sia degno di te? Non commiserare la donna sola – il suo giovane uomo è probabilmente un soldato – che combatte per lei e per il suo paese – e per te. Se il tuo uomo trascurerà il suo dovere verso il suo Re e il suo Paese presto trascurerà anche te. Pensaci – poi chiedi al tuo uomo di ARRUOLARSI OGGI.

Questo tipo di propaganda era molto agguerrita e si riflette anche nelle prime testimonianze artistiche della guerra – come in The Soldier di Rupert Brooke. E siccome tutto il mondo è paese in Italia il clima non era diverso:

IWW propaganda ita

Voglio partire volontario. Dice Adelmo, protagonista del primo racconti de L’invisibile Ovunque di Wu Ming. Il soldato rimase muto.
“Qui non ce la faccio più”
Il fratello lo fissava.
[…]
“Se parto imparerò qualcosa e a me ci pensa il Regio Esercito. Una bocca in meno”
“Sì sì, ci pensa il Regio Esercito, – sbuffò il fratello.

A Wu Ming basta uno “sbuffò” per iniziare a demistificare, mattone dopo mattone, questa retorica bellica, sopravvissuta negli anni, fino al centenario appena trascorso. E programmaticamente L’invisibile ovunque vuole essere il loro modo di NON celebrare la Grande Guerra.

Mentre lo leggevo mi girava per la testa, come una cantilena, un famosissimo verso di Wilfred Owen che, ribaltando una nota sentenza di Orazio, recita così: My friend, you would not tell with such high zest / To children ardent for some desperate glory, / The old Lie: Dulce et decorum est / Pro patria mori: non c’è niente, di dolce, niente di decoroso nel morire per la patria. È una vecchia bugia.

Con grande sorpresa, poi, ho scoperto che, oltre ai Pink Floyd, la colonna sonora con la quale il collettivo ha scritto questo libro è proprio quella dei War Poets inglesi.

Quello di giocare con le bugie – soprattutto storiche – è un vezzo noto di Wu Ming e in questo ultimo libro è particolarmente evidente: quanto è facile ribaltare la storia. Soprattutto se si sta dalla parte di chi la vince, si legge a pag. 171. Oppure: La verità storica non coincide con la verità dei singoli esseri umani (pag. 166). Il libro – quasi una suite musicale in quattro movimenti, ognuna con un proprio tono riconoscibile – fa i conti in ogni sua parte con la verità storica, con i suoi processi di costruzione ed invita il lettore a confrontarsi con le sue rappresentazioni.

Primo è un racconto storico classico: una vicenda verosimilmente inventata ma che sarebbe potuta essere. Secondo, invece, è costruito per buona parte su materiale d’archivio, con tanto di note e citazioni senza però rinunciare alla dinamicità narrativa: qualcuno lo chiamerebbe docufiction. Terzo mette in scena un dialogo fra André Breton e la sorella di Jacques Vaché che cerca di ricostruire la storia del fratello – che fatalmente si confonde con quella del romanzo Nadja, con citazioni da Baudelaire più o meno nascoste (I sette vecchi e Il morto allegro quasi esplicitamente), da Ungaretti (Di Mesnil-lès-Hurlus non resterà che qualche brandello di muro), addirittura De André (quando i vermi verranno a chiederti del nostro amore). La storia di Marie-Louise Vaché può rappresentare quasi un archetipo, in questo incontro/scontro con le dinamiche storiche. A volerla tagliare un po’ brutalmente con l’accetta possiamo notare come il percorso di Marie-Louise sia quasi quello di uno storico: trova le lettere del fratello (documenti d’archivio) cancellato dalla narrazione storica dominante (quella della famiglia che interrogata si rifiuta di parlare. Sì proprio come le dinamiche dei più comuni falsi storici; un esempio illuminante lo trovate proprio su Giap). Allora va alla ricerca di fonti alternative: Breton.

Ma Breton resta pur sempre il padre del surrealismo e Marie-Louse, a conti fatti, non è uno storico e quindi ci si ritrova immersi in un racconto dove contano di più le logiche del come che quelle consequenziali, ci sono i disegni, come nelle lettere collage che Breton mandava all’amico Vaché, c’è il sovrapporsi dei piani: quello di Nadja, il racconto di Breton, i pensieri di Marie-Louise, la descrizione dello studio di Breton che è quasi una reificazione del Manifesto del Surrealismo. E c’è l’invettiva contro la guerra e quella contro l’immondizia, la propaganda, l’amor patrio. E la consapevolezza che a volte la storia è fatta anche di coincidenze: ma le coincidenze sono aperture su altre dimensioni dell’esistere, e per cosa viviamo noi, se non per cercare quelle aperture, se non per farci portare da una frase gettata nella notte a un’altra frase, gettata in un’altra notte?

E spesso le coincidenze sono anche il motore che fa andare avanti Quarto, quello che più gioca con il lettore e lo sfida a capire cosa c’è di vero e cosa no. Presentato come una ricostruzione storica accurata con tanto di documenti d’archivio, è in realtà un mockumentary, cioè un falso documentario (di esempi ce ne sono tanti, da The Blair Witch Project a The war game di Peter Watkins). Continuando un po’ nello stile di quello che era l’ultimo capitolo dell’Armata dei sonnambuli (che già allora aveva tratto in inganno non pochi lettori), la bravura dei Wu Ming sta nel portarci a credere a tutto quello che ci racconta, salvo poi smentite alla prima googlata. Una strategia che se a prima vista può sembrare solamente ludica (che comunque non è da sottovalutare), in realtà corrisponde al progetto compositivo: la non celebrazione della Grande Guerra e la messa in scena di narrazioni non dominanti si risolvono nell’ammonimento a imparare a diffidare di quello che ci viene detto, non prendere tutto per buono, mettere tutto in discussione. Anche se esce dalla bocca di Wu Ming. E tutto ciò avviene non solamente per via assertiva, ma portando alla luce i meccanismi – consci e inconsci – che fanno muovere la macchina.

E si conferma, infine, il potere affabulatorio della scrittura di Wu Ming che tiene incollati alle pagine nel raccontare quelle che sono, alla fine, quattro storie di evasione e di sopravvivenza, a qualunque costo: come in Secondo dove si preferisce il manicomio alla trincea. E l’estraneità causata dal crollo psicologico si riflette nel cambio improvviso e straniante del punto di vista: un personaggio che parla passa improvvisamente dalla prima alla terza persona. Passa dal vedere e dal parlare all’essere visto e all’essere parlato perché la guerra è l’invisibile ovunque del titolo e quindi si nasconde dappertutto, nulla è più sicuro neanche la scrittura, con le sue prospettive stranianti, le formule chimiche in Terzo (come quella della nitroglicerina), i silenzi che ritmano la paura e la tensione, la leggerezza e l’humour con cui si evade dalla trincea, la secchezza che condanna quella burocratizzazione della guerra che preferisce salvare le macchine piuttosto che i soldati.

Ma non manca nemmeno la voce rassicurante, quella che riesce a intravedere una luce: per l’osservatore si tratta di far coincidere il proprio occhio con quello della storia, appunto, e indagare ciò che sta al cuore della tragedia in corso, non fosse per portarvi un brandello di luce. Che poi è uno dei compito della letteratura, almeno per come sembrano intenderla i Wu Ming.

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