Trionfa il monologo non solo per risparmiare: senza regista, l’artista viaggia dentro se stesso. Gifuni, Paolini, la Musso, da Gadda ma con molto Nord Est
Gli attori parlano da soli, ogni replica è la loro serata d’onore. Non perché sono matti (non solo…) ma perché si sono riappropriati del verbo del palcoscenico, ognuno col suo super ego accanto. Ogni sera conquistano il pubblico con le loro forze, abbattendo una quarta parete che ormai non c’è più (ci sono le quinte, ai lati).
Filippo Timi in Skianto si confessa alla platea ed è padrone del mezzo impudico come un grande mattatore capace di insinuarsi nelle pieghe subliminali dello spettatore, quasi in forma onirica. Giuliana Musso è osannata sia quando parla di preti e seminari sia quando racconta come nascevano i bambini in casa: è un capolavoro di sapienza ironica e sentimentale, lei vuole un gran bene ai suoi personaggi, che vengono diritti dall’antropologia del Nord Est, da un’osservazione psicologica tra le più acute su piazza.
Gli attori nell’ultimo decennio si sono ribellati alla dittatura del regista star e si fidano delle proprie potenzialità, come del resto fa il grande Benigni quando appare per Natale in tv con I 10 comandamenti. Sono eredi dei grandi protagonisti del passato del varietà, che stavano soli in passerella per mezz’ora ed oltre prima del gran finale (vedi Walter Chiari, oggi Fiorello) e delle grandi star del cabaret a mezzo tra prosa e canzone, dalla mitica Franca Valeri con le sue “Donne” mai invecchiate a Laura Betti e Milly.
E in anni vintage ci sono stati exploit formidabili a partire da Carmelo Bene che fa però storia a sé: storiche serate con la phonè pazzesca di Paola Borboni, Albertazzi che recita tutto Le memorie di Adriano della Yourcenar ed è un piacere sommo, la Guarnieri che fa un racconto di Henry James, Anna Nogara che legge da par suo Manzoni e Gadda, Franco Parenti e poi Sandro Lombardi che recitano l’Edipus di Testori (e grandi attrici sempre testoriane come Arianna Scommegna alle prese con Cleopatras etc.) fino alla sfacciata Proclemer della Signorina Margherita che mise in allarme la parrocchia del teatro san Babila.
Non sono divi, sono persone normali che parlano di cose che ci stanno a cuore e ci guardano negli occhi, ci aspettano idealmente fuori per continuare il discorso. E’ come se il miracolo teatrale accadesse ogni volta in diretta. Fuori altri nomi, sicuramente dimenticandone molti. Il successo in solitaria si chiama Marco Paolini, che dal Vajont in poi usa il teatro come lezione civile e democratica informazione (se ne è accorta perfino la tv), si chiama Fabrizio Gifuni, che ha creduto tra i primi alla forma monologo e ci ha fatto ri-scoprire a corpo nudo Pasolini, Gadda come se fosse stato scritto non oggi ma domani (quando pensavamo che avesse corretto lui, invece era tutto scritto) e lo Straniero di Camus, un terreno minato dove perfino Visconti aveva fallito: oggi l’attore del Capitale umano si inserisce fra i Lehmann brothers di Ronconi, nuova identità di gruppo.
Mariangela Melato, che ha chiuso in bellezza la partita con un musical monologo amarcord, diceva che le piaceva stare in scena con i compagni perché il teatro era la sua grande famiglia, ha ceduto solo una volta all’ambizione dell’unico nome in ditta, oltre a un peccato veniale di Cocteau alla Piccola Scala. Il successo del peccato originale teatrale ha il nome pure di Sonia Bergamasco che è stata la Karenina, arrampicata su un pianoforte e ora affronta Il ballo di Iréne Nèmirovskji; porta il nome di Gianrico Tedeschi che a 95 anni si racconta, e di Corrado Tedeschi (nessuna parentela) sprofondato nel sentimental mood di Truffaut; oppure Micaela Cescon quando è diventata la Cabiria felliniana, o Federica Fracassi che ha esplorato il Male del secolo scorso identificandosi in due donne attratte da Hitler e in un cane, fino ad Angelo Di Genio che in Road movie ha dato vita, malinconia d.o.c. alla voglia di amare gay randagia.
Scorrendo ora i titoli in cartellone ci si imbatte in molti monologhi, anzi si può dire che siano la migliore offerta di questa stagione, in teatri piccoli e medi, pubblici e privati. Che sia non un fatto casuale, ma una tendenza, è chiaro: innanzi tutto per il fatto che il monologo costa poco e coi tempi di crisi che corrono è molto conveniente: per due anni Fausto Russo Alesi si è sobbarcato tutto da solo Natale in casa Cupiello al Piccolo Teatro, mentre Luigi Lo Cascio si è addossato tutte le Baccanti e Ferdinando Bruni tutta la Tempesta scespiriana.
Niente scene, costumi, né effetti speciali, magari solo una seggiola piantata in mezzo al palco vuoto, come succede in questi giorni (fino al 18 gennaio) in sala Fassbinder con la straordinaria signora Musso che ci porta a domicilio nel cuore e nel cervello dei Nati in casa, un monologo di antropologia culturale, morale, spirituale con un diametro grande così e una penetrazione indimenticabile di esperienza collettiva. Da mandare subito nelle scuole e in tv, ma naturalmente i potenti non si accorgono. Ecco che l’attore è tornato despota gentile, illuminato ospite rinverdendo una tradizione che si era assopita ma che in passato conta esempi illustri.
In genere i monologhi frequentati e di chiara fama erano sempre gli stessi, Il tabacco fa male di Cecov (con Memo Benassi o il suo erede Glauco Mauri) o L’uomo dal fiore in bocca per eroi pirandelliani, mentre se si va in zona esistenziale affettiva spunta sempre fuori La voce umana, con una collana di grandi interpreti, dalla Magnani alla Loren. Nel profondo del tempo, ai primi del 900, si narra di un famoso attore, Ermete Novelli che tutto da solo faceva da solo un exploit raffigurando l’avventore di una trattoria ma senza un oggetto, senza un piatto, senza nulla. E poi ci sono i monologhi d’autore, in cui non è l’attore o l’attrice a mettersi in gioco con la memoria storica e la sua voglia di far sapere come cambia il mondo, ma c’è un drammaturgo, metti Samuel Beckett, che in Giorni felici ha scritto una sua cinica, inflessibile orazione funebre del genere umano, per chi ha ancora voglia di aspettare Godot ed altri amici che ormai lo sappiamo hanno perso il tram.
Foto di Pedro Moura Pinheiro
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