Cosa accomuna opere come “Etere Divino” di Giuseppe Genna e Andrea Gentile, “Il Demone Meridiano” di Andrea Morstabilini, “Liberal” di Paolo Sortino, “Diorama” di Marco Magurno, “Il libro dei bambini soli” di Enrico Sibilla e i “Memoriali del caso Schumann di Filippo Tuena? Una comune pratica di scrittura, un’idea condivisa di letteratura e una stessa visione del mondo contemporaneo.
In Avrei fatto la fine di Turing, ultima raccolta poetica di Franco Buffoni, si può leggere una poesia (Vittorio Sereni ballava benissimo) che finisce curiosamente così: «Ordinando per collane la propria libreria». Oggi molti lo considererebbero un sintomo di OCD, ma Vittorio Sereni non era un ingenuo, aveva lavorato alla Mondadori come direttore letterario (dal ’58 al ’75), dirigendo la collana dello Specchio e i Meridiani. Sapeva bene, quindi, cosa rappresenta una collana: certo, non tutte sono uguali, alcune sono solamente belle da mettere tutte in fila nella libreria, ma altre hanno un progetto editoriale e letterario dietro, presuppongono una visione della cultura precisa, sono riconoscibili. Sono una famiglia. Metterle insieme in una libreria, allora, ha senso.
Il Novecento è stato pieno di collane: dalle rivoluzionarie economiche Bur e Oscar Mondadori, a quelle che ubbidivano semplicemente a un criterio di genere e quindi di più immediata riconoscibilità (come i “Gialli Mondadori”, “Urania” per la fantascienza); o ancora: quelle che si prefiggevano come obiettivo una generica “qualità letteraria”; o infine: quelle “autoriali” (i “Gettoni” di Vittorini) o comunque con una visione dietro (“Le Comete” di Feltrinelli). È sulla visione (della cultura, del mondo, di una idea di letteratura – e i tre aspetti sono necessariamente interconnessi) che deve puntare una buona collana che aspiri ad avere una diffusione non solo commerciale.
Se si vanno a leggere i carteggi dei collaboratori di Einaudi negli anni ’50-’60 si trovano lettere di Vittorini a Calvino, di Calvino a Pavese, di Pavese a Natalia Ginzburg, dove si discute della collocazione dei manoscritti inviati alla casa editrice. «Questo libro lo vedo meglio nei più sperimentali Gettoni», scrive Calvino a Vittorini.
Oppure pensiamo a “Le Comete” (1959 – 1967) di Feltrinelli che promuovono, sotto l’egida di Balestrini e il Gruppo 63, una narrativa, italiana e straniera, dalle forme rivoluzionarie e sperimentali, pubblicando autori che vanno da Giulia Niccolai a Giorgio Celli, da Jack Kerouac a Nathalie Sarraute, da Wolfdietrich Schnurre a Ezensberger, da Sanguineti a Arbasino.
Negli ultimi tempi si lamenta un po’ la scomparsa di queste collane, ma naturalmente la verità è sempre meno radicale di quanto annunciano le grandi firme apocalittiche sulla stampa nazionale. È vero che, con la concentrazione dell’editoria, le grandi case editrici del passato hanno cercato di raggiungere un pubblico sempre più ampio, diventando più generaliste (il che non significa rinunciare alla qualità) e le loro collane sono diventate sempre meno riconoscibili (dal punto di vista culturale).
Diverso è il discorso degli editori più piccoli (che non vuol dire necessariamente indipendenti: quello di cui si parlerà fra poco porta stampato il cognome Mondadori), dove ancora si riescono a trovare collane con una forte connotazione. Abbiamo già parlato qui su Cultweek di “fuoriforma” delL’Orma, ma gli esempi sono molteplici. Notevole è la collana di narrativa curata da Vanni Santoni per Tunué che ha pubblicato, ad ora, otto romanzi, seguendo il solo criterio letterario – stando a quanto dichiara Santoni stesso.
Gli esempi da fare sarebbero ancora molti, ma questo articolo si trasformerebbe inevitabilmente in una noiosa cartina geografica delle collane di narrativa in Italia. Questo lungo (forse troppo) cappello, mi serve invece per parlare di un caso particolare: la narrativa italiana del Saggiatore.
La narrativa italiana in casa Saggiatore vive di uno strano paradosso: considerando i libri pubblicato dal 2014 a oggi è forse quella più riconoscibile nel panorama nostrano. Eppure non è una collana specifica, ma è dentro il grande collettore de “La Cultura”. Ho chiesto ad Andrea Gentile, direttore editoriale, di spiegarmene le ragioni. C’è chiaramente un fil rouge che attraversa tutte queste opere di narrativa (ammesso che di narrativa si possa parlare) e questo filo rosso «non è da noi disegnato sull’asse della narrativa italiana» dice Gentile, «bensì su tutto il catalogo della casa editrice. Questa è la ragione per cui non esiste una collana di narrativa italiana, così come non ne esiste una di saggistica straniera etc. La casa editrice è compatta, e ogni sua pubblicazione dialoga con l’altra [come d’altronde testimonia il maxi volume La Cultura, ndr]. In questo senso, si potrebbe dire, che il Saggiatore non pubblica narrativa italiana ma, al massimo, libri scritti da autori italiani i quali affrontano la forma romanzo in una maniera tutta personale, non necessariamente romanzesca; la necessità è lo Stile. Lo Stile è pensiero; altrimenti siamo di fronte allo stilismo, fonte di molti mali. Lo Stile è dunque necessario in ogni volume che pubblichiamo.
Portiamo avanti un’idea di catalogo come un macrotesto, dove i generi e le strutture sono ibride, talvolta frantumate, talvolta rinnovate. Un testo come Dormono sulla collina di Giacomo Di Girolamo, per citarne solo uno, in che categoria è inseribile? È un saggio? Un romanzo? La stessa cosa si potrebbe dire di molte opere della tradizione, naturalmente; non abbiamo l’ambizione di avere idee geniali ma di conferire al lettore, con ogni libro, un’esperienza profonda».
Lo Stile è pensiero, è una visione del mondo diceva già Proust – in versione aggiornata e più articolata: è un’ideologia, diceva Sanguineti (dove ideologia sta, appunto, per visione del mondo). Torno a sottolinearlo perché è uno degli aspetti fondamentali per capire questa narrativa e non a caso Gentile dice Stile con la maiuscola per distinguerlo dallo stile (o stilismo). Roland Barthes nel Grado zero della scrittura (1953) distingueva fra lingua, stile e scrittura: la scrittura, dice Barthes, non è da confondersi né con la lingua né con lo stile. La prima è l’orizzonte di una comunità umana; il secondo è l’espressione irrelata di un’individualità. La scrittura, invece, è il risultato di una presa di posizione, è il luogo di un «impegno» e di una «libertà», è «la scelta di un comportamento umano, l’affermazione di un Bene determinato». Lingua e stile sono «due forme cieche; la scrittura è un atto di solidarietà storica» che lega la parola dello scrittore «alla vasta Storia degli altri».
Una scrittura, sintetizza Daniele Giglioli in Senza Trauma, è il «risultato della combinazione di una lingua e di uno stile messi in situazione, una combinazione che può essere definita solo dall’esterno di se stessa, sulla base del rapporto con ciò che ne sta fuori, la circoscrive, la eccede: un modo comune degli uomini rispetto al quale prendere posizione, assumere un contegno, disciplinare una mimica».
Detto in questi termini la scrittura sembra qualcosa di serissimo e lo testimoniano i libri di Giuseppe Genna, Andrea Gentile, Andrea Morstabilini, Marco Magurno, Enrico Sibilla, Paolo Sortino, Filippo Tuena (e il discorso potrebbe estendersi anche alle opere di repêchage). Ma com’è fatta questa scrittura?
Sembra chiara la volontà di non voler utilizzare linguaggi mainstream, cercare nuove e continue forme di perturbante, di straniamento, forme che scoraggiano l’empatia e mettono il lettore nella posizione di doversi trovare a riflettere criticamente, a non lasciarsi trasportare dall’acquiescenza. È questa la prima «presa di posizione».
Un primo suggerimento ci viene da Liberal di Paolo Sortino. A p. 19 si legge: «e scambiamo tutta una serie di battute da romanzo realista che mi vergogno di riportare». In tutti i libri degli autori di cui sopra si può trovare la stessa insofferenza per le strategie classiche della narrazione, anche se non esplicitata come nel caso di Sortino. Tutti, in ogni caso, adottano modalità per far deflagrare la narrazione. In Sortino questo compito è affidato alle note, che interrompono di continuo il progredire della storia, fornendo anche informazioni principali che meriterrebbero di stare nel corpo del testo (come il nome del protagonista). Allo stesso modo l’ultimo racconto del Libro dei bambini soli in cui Enrico Sibilla inserisce una lunghissima nota che continua per diverse pagine, alla maniera di David Foster Wallace, e che stride nello stile con quello della prosa principale. Le note contribuiscono a segmentare e spezzare il ritmo che, nel caso di Sibilla, assume talvolta i toni di una cantabilità infantile che si fa perturbante nella sua poca adeguatezza al contenuto di alcuni passaggi (e.g. «credete sia facile spegnere tutta la rabbia da un mammifero di molti quintali? Lo si fa coi morsetti di batteria sulle tempie e i farmaci dentro le aringhe, con le gabbie al sole senz’acqua e le puntine o le schegge sotto le pinne»).
La narrazione e le logiche della consequenzialità sono spesso disattese e ribaltate. Agisce spesso il gusto del frammento e della giustapposizione (come nel libro di Giuseppe Genna e Andrea Gentile, Etere Divino, di cui ho parlato più estesamente qui), su cui forse ha un certo peso la lezione del cut-up di Burroughs. Fa uso della giustapposizione anche Enrico Sibilla, specialmente con il gusto per le frasi nominali. Al contrario Il Demone meridiano di Andrea Morstabilini disarticola la trama attraverso una sintassi ipotattica fino al parossismo, distogliendo l’attenzione del lettore dai nudi fatti e ponendo l’accento sui sintagmi, sulle parole, su una citazione, sulle digressioni.
Anche i Memoriali sul caso Schumann di Filippo Tuena: aboliti i dialoghi e le descrizioni, si affida a un flusso di diari, testimonianze, epistolari, soliloqui, scritture automatiche, immagini, tenta di mimare il flusso verbale della follia in un linguaggio disarticolato e sgrammaticato, verrebbe da dire dislessico, con le domande che sovrastano le risposte. Fa migrare sogni e pensieri da una persona all’altra, in un montaggio sapiente e allucinatorio. Che ha la presa ipnotica di un romanzo gotico, di una storia di fantasmi, senza averne la forma e la struttura (qui la recensione di Roberto Casalini).
Non diversamente funziona l’uso della focalizzazione e dei punti di vista: si va dai casi estremi di Etere Divino in cui la scrittura non è focalizzata, perché non si riesce a individuare un punto di vista, ce ne sono troppi, le voci che parlano si moltiplicano, le frasi si contraddicono: eliminato il narratore, il testo si fa da sé, al Libro dei bambini soli dove la voce che parla passa dalla terza persona alla prima persona improvvisamente e senza giustificazioni di sorta, se non per la volontà di guardare e guardarsi dall’esterno e dall’interno contemporaneamente, illuminare ogni angolo e non lasciare nulla di inesplorato. Per cui avviene anche che gli eventi dei bambini protagonisti a volte ci siano raccontati in maniera analogica, allusi come nel secondo racconto dove la parabola del bambino procede con quella dell’elefante, con un progressivo avvicinamento all’identificazione esplicita, segnalato anche dal passaggio dalla terza persona alla seconda: «E così il morituro barrisce, barrisce, barrisce. La disperazione esonda, e fuoriesce. E «Cestiè» il Morituro tossisce, tossisce, tossisce: la tubercolosi esplode, impazzisce. […] E sei: l’elefante, l’orizzontale».
Una organizzazione testuale di questo tipo è da un lato il segnale, come accennavo, di una volontà di rifiutare lo sguardo fisso e adottare piuttosto una visuale mobile. Dall’altro è la risultante formale di una dichiarazione di libertà (e libertà era una delle parole che usava Barthes per definire la scrittura).
Libertà anche dai generi. Andrea Gentile faceva giustamente notare che molte delle opere edite dal Saggiatore sono difficilmente classificabili, ma anche quando sono più vicine a un genere, le regole di questo vengono disattese: è il caso de Il Demone Meridiano di Andrea Morstabilini. O meglio: le regole formali e gli statuti epistemologici non sono ribaltati, resistono e sono tutti presenti. Siamo piuttosto di fronte al tentativo di forzare il genere a testimoniare uno spettro di possibilità più ampie di quelle che presiedono alla sua genesi. E in questo il romanzo di Morstabilini rispecchia bene una tendenza della narrativa 2.0. Il Demone Meridiano potrebbe essere incasellato nella nicchia dell’horror filosofico, infarcito con uno stile che va da Manganelli a Carmelo Bene (il cui fantasma si aggira per le pagine di più d’uno di questi autori). Morstabilini tende all’iperletterarietà, con una sintassi ricca, un lessico desueto, un marcato ritmo poetico (non si farebbe fatica a riconoscervi versi canonici della tradizione), scandito da assonanze, rime interne, parallelismi, antitesi, ripetizioni esasperate con funzione ritmica e patologico-ossessiva. Il tutto condito con una massiccia dose di citazionismo ben nascosto. Morstabilini d’altronde dichiara i suoi debiti nella nota finale (e anche la quarta avverte della sedimentazione letteraria che attende il lettore), ma ovviamente un autore bara sempre sul proprio lavoro e quindi la caccia alla citazione è aperta, su uno spettro che va da Foscolo alla morte per acqua della Wasteland di Eliot.
Andare a caccia di citazioni è un giochino un po’ hipster che piace a molti lettori (lo ammetto: a volte cado anche io nella tentazione) e i nostri romanzi, da questo punto di vista, promettono divertimento su una gamma di difficoltà variabile (dal livello newbie: «Considera se questo è solo un bambino», Sibilla; fino al livello pro con un’allusione all’Angelus Novus di Benjamin in Morstabilini). Ma il rimando intertestuale fine a se stesso ha poco senso se non se ne interrogano i motivi. Qui il riuso di materiali tradizionali, antichi o recenti, non è parodico-citatorio, ma ha giustificazioni interne al testo che di giocoso, in fondo, hanno poco (e basta rileggere la semi-cit da Levi) e hanno come intento un discorso tragico/perturbante sul presente, condotto con una tensione stilistica che, attraversando tutti gli stili, mira al tragico, ma lo esprime attraverso il balbettio, l’ambiguità o la fragilità dell’ordine, quasi fedele allo slogan Non abbiamo più bisogno di ordine lanciato dal guru della cultura internet Derrick de Kerckhove. E il banco di prova più rappresentativo è ancora una volta Etere Divino, soprattutto se confrontato a Dies irae (2006): a dieci anni di distanza Genna riparte dalla morte di Alfredino Rampi, ma i toni sono cambiati: con Dies irae il discorso sul presente voleva tendere all’epico, con un romanzo che si dà come equivalente allegorizzato della società attuale. In Etere Divino il discorso sul presente si tenta ancora, ma è la forma che cambia: il romanzo sparisce perché forse per far luce sul contemporaneo servono forme nuove (e non a caso il tema della palingenesi è uno dei principali del libro). Anche lo stile cambia rispetto al 2006: lo stile esplode e tende sempre più parossisticamente verso il poetico (ma mai verso l’esornativo). Lo si è già anticipato parlando di Morstabilini, ma lo si ribadisce perché uno degli aspetti più macroscopici di questa narrativa è proprio un continuo movimento dalla prosa alla poesia. Nel Libro dei bambini soli siamo accompagnati da una musicalità tutta poetica, fatta principalmente di rime facili, assonanze, uso del “di” analogico e ripetizioni (da linguaggio infantile). Liberal di Paolo Sortino punta meno sulla musicalità e cantabilità per creare piuttosto una costante atmosfera di irrelatezza attraverso un dettato agli antipodi del prosastico.
Una scrittura così composita, si sarà capito, non è certo di immediata e larga fruibilità. Una volta, un po’ scherzosamente, un po’ seriamente, parlando con un mio amico, mi è capitato di paragonare Etere Divino a Laborintus di Sanguineti – chiariamoci: non era un insulto, Sanguineti è e rimane uno dei miei autori preferiti. Ma, al di là della battuta, a ben vedere ho scorto un’affinità più seria, che non è di natura propriamente letteraria, ma diciamo latamente editoriale: l’uso dei paratesti. Molte delle opere della neoavanguardia erano accompagnate da paratesti che servivano un po’ da istruzioni per l’uso, per guidare il lettore in un’esperienza di lettura diversa. Allo stesso modo Etere Divino ha una avvertenza finale che serve a fornire delle indicazioni preziose, e tutti questi testi sono accompagnati da quarte di copertine molto accurate. Andrea Gentile, in parte, ha confermato i miei sospetti sul paratesto (non una parola sulla neoavanguardia, ché, sia chiaro, è un’ossessione tutta mia): «Una casa editrice è principalmente un’azienda – dice Gentile – ed è proprio questa la ragione che ci spinge a pubblicare determinate opere. In che senso? Che, almeno a nostro modo di vedere, è proprio la nostra identità editoriale, e dunque identità aziendale, a dover attrarre il lettore giusto dei nostri libri. Una casa editrice ha una propria specifica identità e l’identità va costruita e continuamente rinnovata.
Non abbiamo l’ambizione di portare i libri ai non lettori, ma quello di portare i nostri libri nelle case dei lettori giusti.
Non miriamo al bestseller ma a un aumento del diffuso; ogni libro ha un suo potenziale e noi cerchiamo di sfruttarlo al massimo. Non puntiamo su due o tre libri in un anno, ma su tutti; ognuno, naturalmente, con le sue potenzialità. Ogni libro, per quel che ci riguarda, è necessario a un certo lettore, a sé stesso, e agli altri libri del catalogo.
In questo senso, le cose stanno funzionando, anche dal punto di vista economico.
Dal 2014 il Saggiatore ha più che raddoppiato il proprio fatturato nonché il numero di copie vendute. Da questo punto di vista, dunque, mi sembra che ci sia un gruppo di lettori che ci segue con una certa fedeltà.
Non ho paura di pubblicare libri ostici, ma non credo necessariamente che un libro ostico sia migliore di uno non ostico. Si tratta di generare libri che garantiscano un’esperienza, anche materica, al lettore. Libri di varia natura e vari gradi di profondità. E anche per questo i paratesti devono essere curati, non ammiccare, ma interpretare: rappresentano una delle varie voci pubbliche della casa editrice. Al mercato del pesce non necessariamente vende di più il venditore che urla di più. Spesso, piuttosto, chi ha il pesce migliore per un determinato cliente. Questo, mi pare, lo dimostrano anche le diverse case editrici che stanno facendo un bel lavoro in Italia. Quando si sente parlare di editoria libraria, oggi, c’è molto pessimismo. Sembra non vi siano più professionisti. Ma io in giro ne vedo molti; molte case editrici pubblicano libri interessanti e hanno una precisa visione del mondo».
Fin qui potrebbe sembrare che la visione di cui parlavo all’inizio sia una questione principalmente formale, ma forse semplicemente perché è il carattere più evidente. Anche al livello tematico, al netto delle eterogeneità dei diversi testi, è facile individuare delle costanti. Da un lato c’è la questione della parola e del linguaggio, soprattutto nel Libro dei bambini soli, Etere Divino e Il Demone meridiano. Sibilla affronta il problema per via principalmente allusiva, evocando lo spettro di una parola che non viene mai pronunciata. Lo spettro di una parola salvifica che però non arriva: «Dirai una parola, una soltanto, e da quella verrà la salvezza. Ma qual è la parola? La stai già dicendo? Io non riesco a sentirla! Stringe le mani alle tempie e adesso ascolta pianissimo, il bimbo, e poi forte. Ma attorno c’è solo silenzio, dentro la testa e dentro la chiesa: Gesù non gli parla: Gesù non lo salva».
Più esplicito è Morstabilini: il discorso sulla parola è condotto a lungo, facendo anche riferimenti allusivi a dispute filosofiche (come quella sul nominalismo, col «nomina nuda tenemus» citato en passant), arrivando alla conclusione che «non mi resta questa morta di lingua». Con il corollario che anche se la lingua è morta, la parola va comunque detta, deve esserci lo sforzo di cercare una lingua che possa, in qualche modo, salvarci dalla notte buia – altro leitmotiv del libro. È un motivo, questo, che attraversa in modi diversi le opera di Sibilla, Morstabilini e Genna-Gentile.
Il motivo dell’insistenza può essere individuato nella volontà di portare avanti, nonostante tutto, un discorso sul presente – che sia di tipo metafisico o sociale. E così si trova una rappresentazione dell’attualità sottoforma di farsa o soap opera (Liberal e Etere Divino – traparentesi: in entrambi i testi si trova la stessa ironia contro le mode veg e bio), Sortino sconfina anche nella politica tirandoci dentro i migranti, il M5S e i testimoni di Geova. Sibilla, nonostante il suo mondo deformato dall’occhio infantile, riesce a cantilenare il tempo devastato e vile dell’Italia: «il morituro, il morente di un intero Paese, la culla del pianto amato perenne che chiamiamo Italia» (che richiama da vicino «dell’Italia, il Paese che muore» di Dies irae). «Questa prosa indigna» si legge in Etere Divino, indigna per quello che racconta (o meglio: non racconta) e per come lo racconta: Etere Divino, poema cosmologico, favola metafisica, è anche una grottesca farsa del mondo contemporaneo, con «i lumaconi colorati fluo in centro», i designer, le mode, il «salone del buon gusto naturale e veg», il mercato metropolitano, l’odio per i salotti e per i diminutivi…Eppoi: l’uomo che non impara nulla dalla storia, l’uomo che pretende di essere amato solamente per il fatto di essere al mondo. Il mondo di Etere Divino è fiele, solitudine, è una caduta.
Un discorso tragico/perturbante, dicevamo prima, anche per le cosiddette big questions che vengono affrontate. Nel Libro dei bambini soli il mondo è paragonato a un mattatoio e il dolore consustanziale all’uomo: «è l’umano nel tempo terrestre, il Dolore». «Che cosa vale, la vita?» si chiede Sibilla. «Essere o non essere più io» afferma Morstabilini. Non meno rilevante l’immaginario digitale sul quale è costruita tutta la vicenda di Liberal di Sortino, sull’assunto che il mondo senza un supporto digitale non esiste. Affermazione che si potrebbe estendere anche a Diorama di Marco Magurno, libro costruito con le immagini che tutti i giorni vediamo sul web, inframezzate da didascalie e prose di vario genere – dal saggistico allo pseudonarrativo (e per le quali valgono molte delle osservazioni fatte fin qui).
Ancora Sibilla scrive: «E osserviamo dentro i diorami i predatori e i predati, dalle vetrate oltre cui ogni ordine nell’equilibrio è stabilito per sempre, fisso nel gesto di gesso: l’assalto, la soccombenza, il sonno, la fecondazione». Sarebbe a dire che il trauma è visibile solo in una forma dioramatica? A leggere (/vedere) Magurno sembrerebbe di sì. Il libro di Magurno ci restituisce l’immagine di quello che chiama il Supermondo, fatto da tutte quelle immagini che prima facevano parte dello spettacolo, non esente da una certa estetica 4chan. «non si esce dal Supermondo», ci dice Magurno, «eternamente si vaga nello spazio dell’infinito intrattenimento. Non esistono opposti: esiste soltanto l’infinito intrattenimento». Il libro di Magurno è una sequenza di immagini modificate di Padre Pio, Anna Maria Franzoni, Gasparri, Barbie e Ken, Memes, memes autogenerati da internet, spunta di nuovo Alfredino Rampi e tante, tante pagine completamente nere (come in Etere Divino e, prima, in Underworld di DeLillo, o nelle parole di Morstabilini: «il nero, solo, resisteva»).
Un mondo così dipinto non può essere che tragico e sconfortante, eppure una speranza è lasciata trapelare. Non a caso le ultime due costanti tematiche che ho ritrovato leggendo questi libri sono la palingenesi e l’alchimia. Il processo alchemico, per chi non fosse un fanatico di Jung o un esperto di esoterismo, prevede la distruzione, la trasformazione e la finale ricomposizione attraverso quattro fasi. Mi viene un dubbio: che tutto il nero che infesta questi libri non sia un corrispettivo della fase della nigredo (ovvero la prima fase di distruzione)? Non cercherò di rispondere per non cadere nel rischio di sovrinterpretazione (che non sono sicuro di aver scansato del tutto), ma certo è che riferimenti all’alchimia si trovano anche in posti non prevedibili, perché se non stupisce trovarli in Etere Divino e se sono giustificati dal genere orror nel Demone Meridiano, certo nessuno si aspetta trovarne in Diorama.
A me piace spiegarmelo così e mi servirò di una citazione proprio di Morstabilini. Qualche riga fa accennavo a una allussione all’Angelus Novus di Benjamin e forse è giunto il momento di finire proprio da lì. A p. 66 Morstabilini scrive: «destare i morti e ricomporre l’infranto». Ricomporre l’infranto, forse è questo, in definitiva, ciò che accomuna la scrittura di queste opere. Sforzarsi, con i mezzi che si hanno a disposizione, di comporre un mosaico sul presente (il che non equivale a dire: farne la cronaca), ma piuttosto tenere fisso lo sguardo nel proprio tempo per percepirne non le luci, ma il buio. Percepire questo buio – scrive Agamben in Che cos’è il contemporaneo? – non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci».