La storia di un amore e di tutte le sue tappe, quelle meravigliose – e quelle distruttive…
Le convenienze e inconvenienze dell’amore sono messe in scena al Piccolo dal fiammingo Luk Perceval in The year of cancer – in olandese con sovratitoli, fino a domenica. Il testo è adattato da un romanzo del 1972 di uno di più importanti scrittori belgi, Hugo Claus, dai contenuti esili, che virano al tragico nel finale.
Si parla dei turbamenti amorosi di una coppia di amanti che non riescono a stare insieme ma che non ne vogliono sapere di separarsi, arrivando a uno di quei dolorosi paradossi emotivi che non fanno sconti, perché mettono davanti agli irrazionali percorsi del cuore, allo spettro deformante della solitudine e della fragilità dei sentimenti.
Lo spettacolo di Perceval è una performance: il regista sembra non voler seguire altre strade per arrivare al testo, che viene scandagliato attraverso l’esercizio dei corpi sul palco. Perché la prima consapevolezza dell’attore deve essere l’azione fisica, in accordo con la lezione di Barba, Grotowski, Brook, Kantor, e che Perceval fa sua. È questa la verità, vi prego, sull’amore, che non ha niente di realistico e che, allo stesso tempo, non potrebbe essere più concreta.
Questa verità, in scena, diventa un’esperienza che gli attori provano e riprovano disperatamente, non potendo sfuggire all’esame che il regista ha immaginato per loro lasciando anche spazio all’improvvisazione, come se nello spettacolo contasse più la libertà del performer, che non deve lasciarsi soffocare dalla gabbia della messinscena.
Liberati dai vincoli del testo, gli attori sperimentano quelli dei loro corpi dando forma a una danza di forze che ha per centro il loro amore disperato: così, accompagnati dal pianoforte incalzante di Jeroen van Veen, si spogliano e si rivestono, si aggrovigliano senza più vedersi o trovarsi, poi si separano magari saltellando, scuotendo mani e braccia come per interpretare almeno i propri meccanismi fisici, dal momento che quelli psicologici sono e resteranno sempre imperscrutabili.
Fin dall’inizio è il sesso la chiave di questa ricerca di sé attraverso l’altro, ma il malinteso dell’affetto non sarà chiarito nemmeno dal piacere: l’intimità è un mistero buffo e doloroso insieme, auspicata sopra ogni cosa dai protagonisti salvo poi tirarsi indietro quando arriva il momento di mettersi in gioco sul serio.
La scenografia di Katrin Brack – Leone d’oro alla carriera 2017 – è una selva di bambole gonfiabili maschili appese sopra l’immenso palco del Teatro Strehler, che saranno poi aggredite dai due attori, frustrati perché l’accesso all’altro sembra andare oltre la prestazione sessuale. Buona prova di Gijs Scholten van Aschat, straordinaria quella di Maria Kraakman, che ha la forza d’animo di non prendersi troppo sul serio e, se le serve, di sembrare persino impacciata, di precipitarsi verso il suo partner, saltargli addosso, commuoversi o restare indifferente di fronte a lui con una spontaneità artificiale.
Lo spettacolo si dilunga nella seconda parte e si chiude con l’avverarsi di una maledizione – oltre che del titolo – che, nonostante la dimensione ricercata del tragico, non porta a una vera catarsi. E anche se non mancano momenti di profonda connessione con il pubblico, l’impressione è che, per non imprigionare gli attori nel testo, Perceval li abbia imprigionati in un altro tipo di linguaggio, certamente più fisico, ma non per questo più espressivo.
FOTO DI SANNE PAPER
The Year of Cancer, di Hugo Claus, fino all’8 aprile al Piccolo Teatro