Otello, canto alla parola

In Teatro

Lella Costa riporta in scena la sua lettura di Otello a 24 anni dalla prima volta. Al Carcano, fino a domenica 21, fa arrivare all’oggi un discorso mai interrotto, e rimette in evidenza la sua levatura d’attrice.

“Si vive di fortune raccontate” canta Ivano Fossati, e di chi le sa raccontare. Se fosse questo, davvero, l’Otello? Un canto alla parola. Otello, proveniente da un altrove portato nella pelle ma non le parole, che vi si accosta con la devozione che usa a una lingua chi non ci è nato dentro. E le pieghe infide di chi, come Jago, alla parola nega qualsiasi sacralità per mettere in evidenza la natura crudele e multiforme, il potere distruttivo. Per leggere così il più bistrattato e forse frainteso degli eroi di William Shakespeare e la sua capacità di farsi amare raccontando – “Lei mi ha amato per i pericoli che avevo corso, io l’ho amata perché ne aveva avuto compassione” –  ci vuole un’indole e un sentire da narratrice come quello di Lella Costa, che torna a giocare con la mimesi e l’esegesi, a immergersi nelle grandi narrazioni e squadernarle, perché una nuova chiarezza ne riporti tutta la forza. Nel caso del Bardo, il bacino a cui attingere è indubbiamente fecondo, eppure se c’è una possibilità sfidante, nella grande quantità di letture (ma anche distorsioni possibili) è proprio la vicenda del Moro di Venezia.  Riprenderla a ventiquattro anni dalla prima volta, quando era andata in scena con l’iconico titolo di Precise parole, consente di aprire il sipario su una consapevolezza che ha il sapore della dichiarazione di intenti: “preferisco chi me la fa difficile”. Liberare Otello dalle semplificazioni, significa riuscire a farlo dialogare con il presente, con la letteratura – e se Otello parlasse come Pavese, se le parole dell’uno e dell’altro si facessero eco? –  illuminarne, sorridendo ma senza mai forzarli, i legami con l’attualità. Sono più di quanti apparissero ai tempi in cui non esisteva la parola femminicidio ma questa era già la vicenda di un uomo che uccide una donna perché non sopporta che non gli appartenga. Tenendo fermo questo assunto, accettare la complessità significa, però, vedere molto di più, e aprire squarci niente affatto retorici su figure che abbiamo intorno, o forse siamo, tutti i giorni: donne come Desdemona, che sanno cosa vogliono abbastanza da rifiutare una famiglia in nome di chi hanno scelto, ma a cui è stato insegnato nei secoli ad attribuire sempre a se stesse la colpa della violenza subita, in una educazione all’odio di sé che frena anche donne capaci di reagire e rispondere a tono, come Emilia a Jago, ma solo fino a che è loro concesso. E a cui, per guarire una società, non è sufficiente che siano immuni padri come Brabanzio che – anche senza bisogno di capire – riconoscono alle figlie il valore delle loro scelte e le accolgono.


Al setaccio del tempo, poi, resta sempre la parola: quella infida e ridicola della politica, quella crudele dei razzisti d’ogni tempo, quella oscena della propaganda. In quasi un quarto di secolo cambiano i riferimenti e i nomi su santini elettorali, non il loro vocabolario. E poi la parola, abbagliante in entrambi i sensi di un uomo che nella lingua che ha scelto per sé può ferire ma mai mentire. 
Non si fa nessun mistero dal punto di osservazione da cui si vuole rileggere la vicenda di un uomo che, somigliandogli ha eletto a fratello uccidendo un “turco insolente” così più simile a lui.

Più di tutto, però, questo nuovo Otello – che Gabriele Vacis riveste di bianco e di drappi che cadono come lo strappo della crudeltà, dietro cui nascondersi e da cui riemergere in uno spazio scenico elegante e poetico – restituisce a chi magari avesse letto questo testo, nella sua versione originale, nell’iconica edizione Feltrinelli, la straordinaria caratura della Lella Costa attrice, non soltanto narratrice.

Lieve e intensa, in questo lavoro dà un saggio di tecnica perfetto per dimostrare cosa l’abbia resa una delle decane della scena. Forse, vien da pensare osservandola, è perchè governa quello che sulla scena traccia il destino della tragedia, il ritmo: la corsa di Jago, all’inizio, che affanna per confondere, forse persino confuso lui stesso da cosa può trovar sotto il potere che crede di volere. E la lentezza invece, di Otello, che per celebrare le parole e il pensiero ha bisogno del passo lungo, finchè l’avvelenamento dell’odio non trascina in un vortice spietato oltre che velocissimo. Per certi versi, è tutta una questione di musica.  In una carriera già piena di acuti, questo lavoro resta forse uno degli esiti più felici, in cui si prende il diritto sfoggiare, precisa ed elegantissima, tutti i colori e i registri di una voce sciamanica, e si prende anche il diritto di giocare con le forme del presente senza farne parodia, ma perché la storia si avvicini a chi oggi può ascoltarla. Si sorride, vedendola giocare persino con il rap ed evocare Mahmood, si riflette, ascoltandola parlare di maschilismo e patriarcato senza un briciolo della faciloneria con cui spesso lo si fa spesso di questi tempi, piuttosto con la credibilità di cui continua un discorso ininterrotto dal almeno tre decenni. Leggerezza; Rapidità; Esattezza; Visibilità; Molteplicità; Concretezza. Le lezioni americane di Calvino usate come architravi del ragionamento in fondo sono le stesse buone per raccontare questo spettacolo, consapevoli che – val la pena ricordarselo –non si danno l’una senza le altre, altrimenti ne uscirebbero rovesciate, tradite, sfruttate. Per dimostrare, attraverso una carriera, che un capolavoro come Otello non ha quattrocento anni ma nemmeno i venticinque della prima lettura firmata Costa – Vacis, invece, si esigono, soprattutto, precise parole. Perché “Di precise parole si vive, e di grande teatro”.

Foto © Serena Serrani

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