Arturo Cirillo e la sua formidabile identificazione del femminiello raccontato nel libro di Patroni Griffi in cui si riassume nel sesso transgender la sofferenza napoletana
Rosalinda Sprint scende giù per Toledo e il vento se la porta. Ha un appuntamento dal sarto o corre da un cliente? Non importa. La sua esistenza di femminiello è un turbinio governato dall’istinto, un vortice dove necessità e passione si tengono strette, in un abbraccio che sa di sensualità carnale e di un febbrile desiderio d’amore.
Abbandonarsi alla vita, berne a piene mani, senza curarsi se in quel che si trangugia ci sono, insieme alle rare gioie e alle piccole soddisfazioni, i dispiaceri e i tormenti di ogni giorno. Impurità velenose, queste ultime, che guastano la festa, che smorzano gli ardori, che possono perfino annientare. Niente paura. Morire non è un problema per Rosalinda Sprint: rinascerà, inarrestabile, pronta, come cantano i Beatles sul finale, a cadere e a rialzarsi ancora, a cedere ai richiami del cuore e ad essere nuovamente investita dai tumulti del mondo.
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Scegliendo di portare in scena il romanzo breve di Giuseppe Patroni Griffi, Scende giù per Toledo, Arturo Cirillo continua il suo percorso di rivisitazione di autori partenopei. Già nel suo paniere: Eduardo Scarpetta, Annibale Ruccello e Antonio Petito. E sono proprio Napoli e il suo concentrato di umanità al centro del flusso di coscienza di Cirillo. L’io lirico e monologante del suo raccontare diventa infatti un noi: si fa portavoce di Rosalinda ma anche di Marlene Dietrich o della Baronessa, compagne nel mestiere e sorelle di miseria; interpreta Gaetano, “colui che sarà” per un istante l’amore sperato; si fa addirittura voce off, narratore esterno, quasi espressione di una collettività che guarda, riferisce e partecipa all’unisono.
La realtà che racconta Cirillo è amara, dolente eppure traboccante vitalità, è un esistere in cui “niente è come lo si immagina”, pieno di contraddizioni, avvezzo alla volgarità e alla violenza ma, allo stesso tempo, intimamente delicato. Sperare di fuggire è inutile: “Dove finisce Napoli?” si chiede Rosalinda. Mai è la risposta. Nemmeno nel sesso, dove ci si “sente fottuti” brutalmente ma dove la bava che cola dalla bocca, dopo un bacio, diventa “la prima catena d’amore”.
Quella di Cirillo è una prova straordinaria e non solo da un punto di vista attorale. Sospeso tra dramma e leggerezza, la sua Rosalinda abbraccia lo spettatore e lo convince ad amare “il brutto che piace”: non si tratta della sola comunità transgender, ma di un’accolita composita, il cui metro di misura non è tanto l’identità sessuale quanto il proprio essere ai margini della società e degli affetti. Il femminiello assurge a simbolo di una città, dove ciò che emoziona è la lotta, quotidiana e sfibrante, per essere ammessi nel consesso umano.
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