“Memoriali sul caso Schumann” prende le mosse dalla gelida sera in cui, in pantofole e con una vestaglia verde addosso, il maestro esce di casa a Dusseldorf per andarsi a gettare nelle acque scure del Reno…
«Clara è prossima alla fine. So che un colpo apoplettico l’ha duramente invalidata. Non si riprenderà più. Ma voi avete certamente notizie più fresche delle mie. Alle sofferenze di Robert (lontane nel tempo ma sempre presenti), alle precoci morti dei figli Felix, preda di droghe e smarrimenti, e di Ferdinand, annientato dalla tubercolosi, e all’infame destino dell’altro sfortunatissimo figlio Ludwig, rinchiuso ormai non so da quanti anni, in folle soliloquio nell’orribile manicomio di Colditz, ecco aggiungersi anche il calvario della nostra amica. Tutto sta precipitando e solo noi sappiamo – o possiamo provare a sapere – il perché di questo cataclisma.
Insisto, il tempo s’accorcia, mi rendo conto di non averne molto altro a disposizione. Voi farete come vorrete, non mi risponderete, o mi risponderete e nel modo e con l’accuratezza e la sincerità che riterrete più opportune, tuttavia io NON POSSO non tornare a quegli anni; non posso non tornare a interrogarmi sui perché di quella catastrofe, se ne fummo in qualche modo responsabili, oltre che impotenti spettatori. Ma, mi domando, lo spettatore di una catastrofe è veramente immune da responsabilità? Può egli liberarsi del senso di colpa, opprimente, che lo visita sempre più spesso? Potevamo far altro, far di più, far meglio?»
Nel maggio 1896, a più di quarant’anni di distanza dai terribili avvenimenti – dalla catastrofe – l’anziana e cieca Rosalie Lieser, amica della famiglia Schumann, scrive a Johannes Brahms che più di quarant’anni prima, ventenne fulgido e di precoce talento, fu l’allievo prediletto di Robert. È la prima delle sei voci che danno corpo al romanzo Memoriali sul caso Schumann di Filippo Tuena (il Saggiatore).
Oggetto dell’indagine è Robert Schumann (1810-1856), compositore romantico per eccellenza. Tuttavia si cercherà invano, nel romanzo di Tuena, la storia lineare del suo magistero e della sua tormentata vicenda musicale e umana. Si coglieranno soltanto echi della grande libertà e varietà formale della sua produzione pianistica, che esprime con immediatezza un’acuta sensibilità individuale allontanandosi dalle costrizioni della forma-sonata.
Si avranno soltanto accenni al contrasto sotterraneo e inespresso, mai esploso eppure forse tra i lieviti della sua follia, tra il virtuosismo della moglie Clara, forse la massima pianista dell’Ottocento, e la scarsa abilità esecutiva di Robert (Schumann non poté dedicarsi alla carriera di concertista: si era rovinato una mano con un meccanismo da lui stesso inventato per rafforzare il quarto dito), del contrasto tra la levigatezza della forma e la libertà della musica, tra chi tende a conservare smussando (Clara fu la custode del lascito artistico di Robert, e non consentì la pubblicazione delle sue opere tarde e secondo lei imperfette, arrivando a distruggerne alcune) e chi, nel creare nuovi linguaggi, scardina quelli esistenti. Tra la superficie e la profondità, verrebbe da dire, anche se la profondità di Schumann si nutre di fantasticherie e a volte di incubi (Hoffmann, Herder), è attratta dai gorghi e corteggia i fantasmi.
Non dà conto che per labili ed estremi residui, il fascinoso romanzo di Tuena, dei molti interessi umanistici di Schumann, figlio di un ricco libraio-editore (lo si vede, in queste pagine, alle prese con il Simposio di Platone), né della sua importante attività di critico: il crociato del romanticismo contro la musica aggraziata e “divertente” (fra i suoi bersagli polemici Rossini e Meyerbeer, e risalendo al passato anche Mozart e Domenico Scarlatti), il consacratore di Chopin, Berlioz, Mendelssohn e Brahms.
Memoriali sul caso Schumann circoscrive il perimetro agli ultimi anni di Robert. E prende le mosse dal 27 febbraio 1854, la gelida sera in cui, in pantofole e con una vestaglia verde addosso, il maestro esce di casa a Dusseldorf per andarsi a gettare nelle acque scure del Reno. Salvato da alcuni passanti e ricondotto a casa fradicio da un corteo chiassoso e inquietante di maschere di Carnevale, chiederà di essere ricoverato in una clinica. E verrà internato fino al 1856, anno della sua morte, a Endenich nei pressi di Bonn, trascorrendo gli ultimi anni fra catatonie e sforzi compulsivi di essere presente a se stesso, senza che mai la moglie né i figli lo visitino (anche il figlio Ludwig, la cui follia corre in queste pagine parallela a quella di Robert, trascorrerà tutta la vita a Colditz senza che mai, neppure una volta, Clara che non sopporta il dolore lo vada a trovare).
Di che cosa si alimenta la follia di Robert Schumann? Di voci, di allucinazioni auditive. Sente cori angelici oppure demoniaci. Voci che gli dettano pagine di musica (le pagine estreme, le inquietanti Variazioni del fantasma, gli sono state suggerite a suo dire da Franz Schubert), voci che lo accusano, suscitando in lui parossismi di terrore o di furia, di non essere l’autore della musica che compone. Di realtà vissuta che confonde con la realtà sognata: Schumann evoca spiriti in sedute medianiche con i giovani allievi (uno di essi, il violoncellista Christian Reimers, “autore” di uno dei sei memoriali, tenterà di mettersi in contatto con lui dall’Australia dove è emigrato attraverso uno sciamano aborigeno), traccia rotte incomprensibili sugli atlanti, lancia messaggi cifrati attraverso le tessere del domino.
Abbiamo detto che il romanzo di Filippo Tuena non è una narrazione lineare. Di più, è un romanzo che smonta sistematicamente l’attrezzeria del romanzo tradizionale: aboliti i dialoghi e le descrizioni dei luoghi (uno soltanto, il tetro e all’apparenza confortevole manicomio di Endenich, viene raccontato minuziosamente), soppresso il narratore onnisciente (che qui compare soltanto nella postilla finale, a riannodare i fili delle narrazioni), si affida a un flusso di diari, testimonianze, epistolari, soliloqui, scritture automatiche, immagini, tenta di mimare il flusso verbale della follia in un linguaggio disarticolato e sgrammaticato, verrebbe da dire dislessico, fa migrare sogni e pensieri da una persona all’altra, in un montaggio sapiente e allucinatorio. Che ha la presa ipnotica di un romanzo gotico, di una storia di fantasmi, senza averne la forma e la struttura.
Nato a Roma nel 1953, storico dell’arte per formazione e antiquario per tradizione familiare, Tuena ha indagato, in romanzi affascinanti e alti, mescolando invenzione e documentazione, gli ultimi anni di Michelangelo (La grande ombra) e la folle corsa di Robert Falcon Scott alla conquista del Polo Sud (Ultimo parallelo). Prendendo spunto, anche in quel caso, da una pagina musicale scomparsa di Leon Reinach, una sonata in re minore per pianoforte e violino da lui ritrovata e grazie a lui incisa, ha raccontato nelle Variazioni Reinach (premio Bagutta 2005, forse il più bel romanzo italiano dell’ultimo decennio) la storia di una dinastia ebrea francese travolta e annientata dal nazismo.
In questi Memoriali sul caso Schumann, le domande sovrastano le risposte perché, dice Tuena, il fine dello scrittore non è “dire la verità”. La follia che cova compressa tra le convenzioni di un’educata vita borghese, il genio che forse è soltanto balbettio (così l’anziano Johannes Brahms, nel memoriale forse più rivelatore del romanzo: dove l’allievo adorante si rivela feroce e rancoroso concorrente teso a superare il maestro), la superficie e la profondità, l’amore delle famiglie e il fuoco dell’amicizia che covano la paralisi affettiva, i rapporti di sodalizio che celano un mutuo vampirismo (sarà stato Robert, nell’entusiasmo con cui patroneggia i giovani allievi, a succhiare loro sangue e midollo? O saranno stati loro, sarà stato Brahms, a vampirizzarlo, subentrandogli nel magistero musicale e forse nel cuore di Clara, per poi scoprirsi una sua pallida copia?), l’impossibilità di penetrare fino in fondo anche la persona più prossima, come se fosse un perfetto sconosciuto.
C’è, in questo romanzo-variazione (la variazione è, per Tuena, la forma più alta della cultura musicale dell’Ottocento, e la più prossima alla letteratura), una metafora potente dell’arte del narrare. Nel manicomio di Endenich ai visitatori non è concesso di incontrare i pazienti: possono solo osservarli da lontano, non visti. E se scrivere romanzi non fosse altro che questo scrutare da lontano?
Filippo Tuena Memoriali sul caso Schumann (il Saggiatore)
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