Tra le vere battaglie combattute in Europa e quelle metaforiche della vita familiare, il sogno americano si trasforma in una condanna senza alcuna redenzione
Di Richard Yates, straordinaria voce del realismo americano, si dice spesso che ogni suo libro racconti la famiglia, e che la sua opera sia un continuo rigirarsi tra le mani questo tema, sviscerandolo in tutte le sue dinamiche. Del resto, è stato proprio lui ad affermare che «non c’è altro di cui parlare». Eppure nella prefazione a Sotto una buona stella, il secondo romanzo in ordine di stesura ma l’ultimo a vedere la luce in Italia, Francesco Longo individua un altro filo conduttore che attraversa, qui forse in maniera più esplicita che in altri testi, le due vicende parallele ma inevitabilmente intrecciate di una madre e di un figlio.
In questa storia, così attentamente scandita tra il presente del giovane Robert Prentice e il passato dolente e turbolento di Alice, è la guerra a dominare: che sia quella combattuta fisicamente in Europa da un ragazzo fragile, segnato dal divorzio dei genitori e da una vita instabile, o quella, metaforica, portata avanti con ostinazione straziante da una donna che si rifiuta di soccombere all’evidenza del fallimento delle sue velleità artistiche e sentimentali, poco importa agli occhi di Yates, che nei suoi personaggi proietta ancora una volta la propria vita. Perché, al di là delle contingenze, l’esistenza si riduce a un unico e inesorabile scontro: quello tra aspettative e realtà.
In queste due figure infelici, che si offrono a noi in tutta l’inadeguatezza stucchevole delle loro illusioni e della considerazione di sé, Yates riassume la propria concezione dell’esistenza come parabola incongruente in cui ogni eroismo è negato e l’essere umano non si limita a fallire, ma finisce per apparire ridicolo fantoccio in balìa dei propri sogni e delle ambizioni frustrate. In Bobby che fa incursione nelle case di civili e adatta le sue movenze ai gesti cinematografici; in Alice che si ostina a vivere al di sopra dei propri mezzi accatastando in magazzini sparsi per l’America sculture che non avranno mai il pubblico tanto agognato; nell’infantile consolazione del «facciamo finta che non stia succedendo» che regge giusto il tempo di un paio di whiskey, nei telefoni che non squillano e nelle lettere che non arrivano, negli appartamenti abbandonati e male arredati, nei silenzi e nelle conversazioni isteriche sta tutto ciò che Yates vuole dirci: il sogno americano è un abbaglio, e la vita una condanna senza redenzione.
«Non c’era mai bisogno di regolare nessun conto; non c’era mai bisogno di dimostrare niente. Alla fine si sarebbe sempre aggiustato tutto se due bravi ragazzi potevano andare dietro il fienile e chiarire la faccenda, se una madre poteva buttarsi in ginocchio e rendere grazie a dio di tutto cuore e alla radio suonavano l’inno nazionale. Ecco ciò che avevano da dire queste voci; ecco il loro messaggio bugiardo e sentimentale, e tutto andava già liscio come le frittelle con la marmellata.»
Una condanna da scontare a capo chino, come nel coro delle preghiere misere che accompagnano il romanzo. All’ultima, quella autentica di Alice, Yates risponde in poche righe lapidarie e incuranti delle precedenti quattrocento pagine di affanni, traumi e tragedie domestiche. Impietoso portavoce di quella solitudine esistenziale che si riconferma ancora un volta il cuore della narrativa yatesiana.
“Sotto una buona stella” di Richard Yates (minimum fax, pp. 411, 14,50 euro)