Il racconto di una serata che può mettere in discussione tante certezze su che cos’è un’opera d’arte. Può essere mettere in vendita pezzi immateriali di opere su Kijiji, fare una torta o anche farsi massaggiare?
Per provare a fare un’analisi di ciò che è successo, o quantomeno esprimere un parere lucido sull’effettiva riuscita di questo primo “crash test”, credo sia utile cominciare con un brevissimo sunto di ciò che l’artista ha fatto dall’inizio del suo esperimento sino alla fine. Nei giorni precedenti a quello del collaudo, m, l’artista, ha quotidianamente spammato data e luogo del suo “opening” tramite alcuni canali di comunicazione non convenzionali per il mondo dell’arte (siti di annunci, come Kijiji e eBay), invitando degli sconosciuti a diventare parte della sua opera.
In questa prima fase, l’artista si è servita di un linguaggio – visivo e testuale – accattivante, pubblicitario, diffondendo una serie di testi, in cui oltre a dare informazioni venivano raccontate delle storie, e le immagini di alcuni suoi collage digitali (messi in vendita al prezzo simbolico di un euro).
Arriviamo a domenica 14 dicembre. Dall’arrivo della gente sino a fine serata vengono svolte diverse azioni, tra cui:
1. svuotare la crash test room spostandone i mobili in cucina e creando qui una barricata composta da lampade, credenze, divani e altri oggetti accatastati gli uni sugli altri;
2. accendere un fuoco nel camino della crash test room;
3. disegnare una lapide su cui proiettare una filmografia;
4. creare un buco in una parete che dà su una stanza in cui è stato posizionato un lettino da massaggio;
5. realizzare un’immagine inedita da caricare su Google Images;
6. fare una torta;
7. allestire in bagno una sala lettura con un diario dal quale, attraverso una serie di appunti dell’artista, sia possibile comprendere l’insieme apparentemente caotico di queste azioni (mise en abyme);
8. tagliarsi i capelli;
9. vendere le opere in mostra;
10. farsi fare un massaggio.
Prima delle 18:30 nella crash test room non c’erano opere, non c’era uno spazio espositivo e soprattutto non c’era una mostra. Tutto è stato realizzato durante la serata da diverse persone che erano anche spettatori di ciò che stava accadendo.
Con la prima azione, quando il pubblico ha aiutato l’artista a trasferire i mobili dalla crash test room alla cucina, è avanzata subito l’ipotesi dell’happening. Il pubblico era diventato parte attiva nel processo di costruzione della mostra. Sino a questo momento ciò che vedevo non destava particolarmente il mio interesse.
La situazione è radicalmente cambiata a partire dalle azioni successive, attraverso le quali si è avuta una chiara ridefinizione dei ruoli: da un lato m e alcuni suoi amici che facevano cose, dall’altro il pubblico che li osservava: non poteva trattarsi di un happening, perché in quelle azioni e nella scelta di quei protagonisti non c’era improvvisazione. Ma nemmeno era una messa in scena, perché chi svolgeva le azioni non era un attore pagato per fare una rappresentazione, ma un amico dell’artista che, nel momento in cui terminava il compito affidatogli, tornava a essere uno spettatore, un fruitore qualsiasi della mostra, uno in mezzo al pubblico.
Quella di m è stata un’operazione di decostruzione: è stato smontato e poi rimontato, pezzo per pezzo, un processo, mostrandolo in ogni sua fase dall’inizio alla fine: quello della creazione di un’opera, della sua messa in mostra e della sua vendita (le opere sono state vendute vincolate contrattualmente a un prezzo massimo per prevenire speculazioni).
Si è trattato di un’operazione metalinguistica condotta attraverso una serie di azioni provocatorie o quantomeno ironiche per chi guardava: a fine serata, l’artista si è lasciata massaggiare dalla sua curatrice, mentre il pubblico la osservava dalla stanza attigua grazie a un buco nella parete che l’artista stessa, poco prima, aveva creato.
L’intero sistema messo in piedi da m (dagli annunci su eBay al massaggio in camera) si è retto tutto sull’ambiguità. Dalle immagini ermetiche dei collage alle azioni che prima coinvolgevano e poi escludevano il pubblico, il fine sembrava essere quello di confondere e disorientare lo spettatore, di metterne in discussione la presenza, il suo statuto.
Proprio questa ambiguità è riuscita a creare, la sera dell’evento, un grande sistema di aspettative. Tra un’azione e l’altra il pubblico continuava a chiedersi che cosa sarebbe accaduto e perché. La tensione dei fruitori causata da queste attese prolungate, il desiderio continuamente frustrato di vedere qualcosa è stato ciò che quella sera, dall’inizio alla fine, ha davvero riempito lo spazio.
Foto: m, Crash Test #1, Estrattori di ciglia dagli occhi.