Romanzi corali, thriller storici, gender gap, lingue immaginifiche, il ritorno del conte philosophique (sicuri che se ne fosse mai andato?), attualità, Medioevo e perfino un fototesto dedicato alla geografia creativa di Antonia Pozzi: la lista delle buone letture per Natale in dieci titoli. Il pranzo narrativo è servito.
1) Laura Pariani, Quando Dio ballava il tango (La Nave di Teseo)
Tutti gli abbandoni sono al maschile: partono, gli uomini della migrazione. Scappano, gli uomini del tradimento. Muoiono, gli uomini del lavoro duro e ultimo. Le minacce, le cinghiate, il bicchiere, la rabbia, la disperazione selvaggia: questo, sono, gli uomini.
Guai contraddirli, guai farli inciampare nei propri lombi, guai dargli figli che li disturbino.
E le donne? Alle donne, che restano sempre, va il compito di far continuare la vita. Così, resistendo, costruiscono il mondo – in cui altri uomini partiranno, scapperanno, moriranno, scompariranno.
“Una persona può cambiare vita, casa, amore, però anche se ti spogliano di tutto rimane qualcosa che sta in te da quando impari a ricordare, cioè molto prima di aver l’età della ragione: il midollo di un altro modo di vivere”.
Nel tempo in cui un pezzo di Italia si riversò oltre l’Oceano per diventare Argentina, le donne sono i connettori nel discorso, la parola e la memoria dell’amore che è stato spezzato: di generazione in generazione, di qua e di là del mare.
Sedici sono, le loro storie intrecciate dentro questo romanzo corale: ogni vita riverbera di ciò che è stato prima, e in quello che manca si annidano nostalgia e rimpianto. Sul lungo corridoio della Storia, si aprono le porte delle loro esistenze minime, gravide di ricordi ma mai ricordate.
Una madre senza figli, una figlia senza padre, una bisnonna senza patria. E ancora: una, diventata moglie per procura, un’altra abbandonata incinta a sedici anni, una infine sedotta da uno zio, un’altra ancora sposata all’assassino di suo fratello.
La loro voce sale dalle pagine di questo romanzo, rimasto per troppo tempo fuori dagli scaffali ed ora ristampato da La Nave di Teseo: epico, ardente, magistrale.
Sulla materia feroce di cui sono fatte la famiglie, sul fascismo domestico, sull’incapacità di comunicarsi come umani, sulle mille infinite compromissioni necessarie per sopravvivere, sulla reale possibilità di essere inclusi in una società altra, sull’essere altrove, sul perdere sé per l’idea di un mondo diverso: a questi temi universali guardano i cardini di questo libro. E per ognuno c’è un tango.
2) Roberto Contu, La tigna (Castelvecchi)
Il 15 settembre 1999, alle 8.15, la prima campanella di scuola suona sulla vita danneggiata di Renato Contro, insegnante; sulla trincea mentale di Roberta Valentini, preside; sui dubbi professionali di don Andrea Clementi, insegnante di religione.
Ma suona, la campanella del primo giorno di scuola, anche per quelli che a scuola non ci andranno, perché le loro vite di studenti stanno deviando verso un territorio che non è più contenuta dentro la scansione di ore e materie: Luca, Francesco (il primo amico), Benedetta (fidanzata di Francesco).
Roberto Contu sceglie un tema di difficilissima attualità: di ragazzine improvvisamente madri non usa molto parlare, eppure la maternità precoce è, in questi ultimi vent’anni, una realtà in cui la scuola inciampa sempre più frequentemente.
Lungo i bordi di quel momento di prima, bruciante solitudine determinata dalla necessità di scegliere si muovono tutti i personaggi di questo romanzo in cui la scuola è la filigrana della società, e tra gli attori protagonisti c’è anche il senso profondo della letteratura.
“…dopo quel baratro la possibilità del bene comunque persiste, rabbiosa, tignosa della tigna più pura, che il solo poter contemplare l’idea di quel bene, di quella luce, di tutta quella vita, quello è il vero finis terrae del senso umano. Arrivare fin là, inoltrarsi fino a quella vertigine proibita, oggi, è umanamente inaccettabile per tutti, non è credibile, di più: per chi ha il dono dell’intelligenza può sembrare ingiusto, perlomeno stupido. Eppure, o la letteratura ha il coraggio di osare oltre quelle colonne d’ercole, e con lei la vita, la sua vita, la mia vita o allora sì che si diventa irrilevanti, allora sì che davvero si muore: ma non si muore, preside, no che non si muore, la domanda più assillante che dovrebbe assillarci non è perché si muore, ma perché si vive”.
Una storia di crinale: di vite in trasformazione, di domande complesse, di campanelle che suonano, di quel momento in cui si comincia a tracciare la propria consapevolezza nei ruoli dell’esistenza. Roberto Contu ha il fegato di interrogarsi, oggi, sul senso della felicità e, soprattutto, di non calcare la via del buio: le sue pagine sulla sintropia sono il miglior oroscopo che ci si possa augurare per ogni possibile domani.
3) Paolo Cognetti, L’Antonia (Ponte alle Grazie)
È una ragazzina di città, di famiglia benestante, quella che butta gli occhi oltre la lamiera della baracca appena davanti alla finestra del suo studio. E salgono, quegli occhi addomesticati nella vita milanese a covare la lontananza, fino in cima alla montagna di fronte. Su quel tavolo (a Pasturo, ai piedi della Grigna), si consumerà parte della lotta interiore della vita di Antonia Pozzi: poetessa (enorme, e postuma), alpinista (appassionata) e fotografa.
Paolo Cognetti entra, da scrittore e amante della montagna, nell’archivio di quella vita, sceglie versi, lettere e immagini e li ricuce lungo la spina dorsale dell’esistenza di Antonia Pozzi. Ne esce un ritratto vivido, dall’interno, fatto di slanci e ramponi, di amicizie e speranze, di amori segreti e ardenti: L’Antonia bruciata dal sole di agosto dopo una camminata, in cordata con Emilio Comici, innamorata del suo insegnante di latino e greco, al rifugio Mezzalama quota 3036 metri, che sogna di diventare madre (o di morire), che aspetta gli amici dell’università, che osa dare le sue poesie in lettura al suo relatore ma poi si pente. L’Antonia dei versi infiniti.
Io fui nel giorno alto che vive
oltre gli abeti,
io camminai su campi e monti
di luce –
Traversai laghi morti – ed un segreto
canto mi sussurravano le onde
prigioniere –
passai su bianche rive, chiamando
a nome le genziane
sopite –
Io sognai nella neve di un’immensa
città di fiori
sepolta –
io fui sui monti
come un irto fiore –
e guardavo le rocce,
gli alti scogli
per i mari del vento –
e cantavo fra me di una remota
estate, che coi suoi amari
rododendri
m’avvampava nel sangue –
Nevai , scrive Cognetti, è “poesia di scialpinismo”, di fiori e di neve, di quelle particolari risonanze emotive che, nella vita di Antonia Pozzi, rivelano l’intensità del suo sentire. Quanto questo sia stato frutto dell’andare (tra città e montagna, tra solitudine e amore, tra pianura e ascesa) emerge in queste pagine di silenzio, di verticalità, di intensa poesia.
4) Graziano Gala, Sangue di Giuda (Minimum Fax)
Non si può non volere bene a Giuda. Però non è che lo si capisca da subito (del resto, sarà per qualcosa che lo chiameranno in quel modo, no?).
Perché Giuda è strano. Parla coi santi, parla coi gatti, parla con le pietre. Parla con le stanze della casa, che sudano e si muovono. E c’ha quella fissa di Pippo Baudo, unica divinità catodica in grado di placare lo spirito tremendo di suo padre, sempre pronto a uscirsene dalla credenza per riempirlo di botte.
Così ci vuole che si aprano le porte della casa, che il gatto Ammonio dica la sua, che il furto del vecchio televisore Mivar vada al posto che deve nel progetto che altri hanno per la vita e la casa di Giuda, che il paese cominci a rivelarsi per quello che è. E, insomma, piano piano, certo che si capisce, cos’è, quell’innominabile tradimento collettivo che gli ha strappato di dosso perfino il nome, segnando il suo destino sociale.
“Accà stavano tutti ‘ncazzati, e non cu unu a caso: accà stavano tutti ‘ncazzati cu mme. Che novità, penso: è na specialità de ‘stu paise cercare nu capro espiatorio e io, belati a parte, so’ proprio preciso per il ruolo”.
Scritto in una lingua insieme arcaica e immaginifica, fatta di terra, di lividi, di sole feroce, di ferita e di bruciante pietà.
È prosa, ma suona in versi. È dialetto, ma di nessun luogo. È amaro, grottesco, paradossale. E tremendamente realistico.
5) Caroline Criado Perez, Invisibili – Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano (Einaudi)
Fate un gioco con voi stessi: prendete un foglio di carta e scrivete il nome di un genio.
Oppure.
Fate un gioco con voi stessi: prendete un foglio di carta e scrivete il nome di un robot della vostra infanzia.
Estendete l’esperimento a chi vi sta intorno: quindi confrontatevi mentre, contemporaneamente, potete cominciare a interrogarvi se sarà proprio un caso che alla parola “persona” venga associato in prevalenza un immaginario maschile. Possibile che questo immaginario non condizioni il modo in cui costruiamo la nostra realtà e la abitiamo?
“La storia del genere umano. La storia dell’arte, della letteratura, della musica. La storia dell’evoluzione. Ci sono state presentate come fatti oggettivi, ma in realtà nascondono un inganno, giacché sono distorte dalla mancata percezione di metà del genere umano, e persino dalle parole che vorrebbero esprimere quelle mezze verità. Una mancata percezione che ha creato vuoti informativi, che ha alterato ciò che pensiamo di sapere su noi stessi e alimentato il mito dell’universalità maschile. E anche questo è un fatto”.
Per il Times il lavoro di Caroline Criado Perez è “un libro potente e provocatorio”. Letto dopo due anni di pandemia, una crescita spaventosa di femminicidi e un aumento della disoccupazione femminile, viene da chiedersi se, più che di provocazione, non si tratti piuttosto di una lettura della nostra realtà dannatamente lucida. Criado Perez parte dall’assunto che la mancanza di dati di genere comporti di necessità una lettura e una progettazione distorta della realtà.
Per esempio. Lo sapevamo che i crash test prevedono “di norma” l’utilizzo di manichini modellati sul corpo maschile? Che la ricerca medica è basata su campioni “di norma” prevalentemente maschili? Che la tecnologia (persino la grandezza e il peso dei cellulari che usiamo) si modella “di norma” su esigenze di corpi maschili? E ci sarà relazione tra questi assunti e il fatto che negli incidenti stradali muoiono più donne, che patologie ed effetti collaterali femminili non vengono riconosciuti (se non come eccezioni), che persino il riconoscimento vocale funziona il 70% meglio con le voci maschili?
Dal lavoro di cura non riconosciuto (interessantissima la parte in cui viene spiegato come nasce il Pil), all’organizzazione di tempi e spazi (rivelato infine il mistero del perché ai bagni delle donne c’è sempre la coda), fino ai libri scolastici, ai videogiochi, a film e cartoni animati: 450 pagine per tastare i confini di un enorme rimosso collettivo.
6) Susanna Clarke, Piranesi (Fazi Editore)
Un luogo che non è un luogo: una architettura labirintica e infinita, assoggettata al dominio del mare. Chiuso tra le sue stanze, Piranesi ha inventato un suo modo per segnare lo scorrere del tempo, mentre si spinge a inoltrarsi sempre più lontano nel dedalo infido degli ambienti, abitati soltanto dagli scheletri di chi vi ha perso la vita, ed è diventato ormai figura al pari di una innumerevole popolazione di statue fantastiche e immense.
Che cos’è, dunque, la Casa?
Luogo di solitudine disumana. Confine sull’abisso. Perfetto limite in equilibrio tra desiderio umano ed elemento naturale. Metafora di conoscenza. Immagine di alienazione.
Vestiboli, scalinate corrotte, maree che improvvisamente inondano e possono essere fatali: dentro il labirinto, Piranesi è un Minotauro che ha smarrito la memoria di sé.
L’Altro si presenta due volte alla settimana: vuole il racconto delle ultime scoperte della Casa, chiede conto, porta qualche regalo per la sopravvivenza minima.
“Una volta trovata, la porta è sempre con noi. (…) Bisogna tornare nell’ultimo luogo dove si viveva prima che il pugno di ferro della razionalità moderna afferrasse le menti degli uomini”
È la parola scritta a tenere ordine: Piranesi rinomina il mondo come un dio esiliato, tiene nota di ogni minima variazione, indicizza i discorsi che fa con l’Altro, stabilisce un calendario di movimenti in base ai pericoli che il mare muove alla Casa. Così è quando una mano sconosciuta traccia nelle stanze parole nuove, che l’equilibrio si incrina, svelando a Piranesi ciò che a lui stesso era stato occultato.
Un fantasy? Forse, meglio, il ritorno in grande stile del conte philosophique: enigmatico e appassionante.
7) Bianca Pitzorno, Sortilegi (Bompiani)
L’incantesimo è dannazione. L’incantesimo è salvazione. L’incantesimo è consolazione.
In tre racconti, una parabola sul sortilegio come elemento scardinante: una bambina troppo bella e troppo intelligente che sopravvive da sola senza la famiglia; un uomo che si innamora delle orme di una donna senza averla ancora vista; un profumo di biscotti che attraversa il mare e riempie di desiderio e sconvolgimento tutti quelli che incontra per strada, senza che li abbiano assaggiati.
Nello spazio della mancanza (la protezione della famiglia, il corpo della donna, la mano che sforna i biscotti di vento) si formula il destino, ed è sempre la parola lo strumento del cambiamento.
“Simil delitti non si scuoprono mai se non per qualche accidente, essendo delitti commessi invisibilmente e diabolicamente”
Dal Seicento al Novecento, tre secoli di incantamenti tra Toscana Sardegna e Argentina: di come l’ignoranza, per incredulità e malizia, possa cancellare la più innocente delle vite; di come l’innocenza possa trasformarsi nella più potente delle alleate e nella più fredda delle nemesi; di come il ricordo costituisca il più radicale, consolatorio, travolgente incantesimo.
Storie da un medioevo interiore per un gioiello a tre punte.
8) Luisa Gasbarri, Il male degli angeli (Baldini+Castoldi)
Tre donne, tutte uccise dal fuoco: belle, giovani, orribilmente sfigurate.
Per Sara Wolner non si tratta dell’effetto di tragici incidenti; qualcosa risuona nella sua testa come l’emersione di una ritualità nascosta. Quando, tra Svizzera e Germania, ottiene di poter indagare, comincia a ricomporsi la memoria di una storia oscura e scomoda.
“Il fuoco e il dolore condividevano in fondo la stessa natura: stabilivano un’incommensurabile distanza tra sé e il mondo”
Vril, si chiamava, la setta femminile dedita al viaggio iniziatico della trasformazione, che intrecciò con Hitler e il nazismo un rapporto esclusivo, ambiguo, potente.
Dunque quello con cui Sara si trova a fare i conti è qualcosa di più di un dubbio: se le Vril non fossero scomparse insieme al rogo del Reich? Se qualcuno (qualcosa) stesse dando loro la caccia nei quattro cantoni d’Europa?
Un thriller che si muove nel tempo, teso e inquieto.
9) Salvatore Massimo Fazio, Il tornello dei dileggi (Arkadia edizioni)
In principio ci sono Paolo, Giovanna e Adriana.
Lui fa il consulente filosofico, della parola fa tormento e salvazione, la sua vita è in costante crisi, di Giovanna non vuole più sapere, ogni singolo anelito spira per Adriana.
Poi c’è il tempo di Adriana: tempo altalenante e manipolato, di volontà non coincidenti, di tentativi e ritrosie improvvise. È il tradimento compiuto, dice Paolo: quello da cui non si torna indietro.
Infine. Infine c’è Giovanna.
“Trasformati dove vuoi, con chi vuoi, ma trasforma le presenze, gli indugi e le tensioni. Ci sono altre vite qui. E mancano. Se non ti trasformi, resisti e vivi. E se resisti e vivi non è detto che non anneghi”.
Catania è il proscenio delle vite, delle nevrosi, delle mode, della dialettica infinita, del calcio come religione e diversivo, dei locali, delle notti di caldo totale. Nulla, però, è come appare. E il tornello dei dileggi è insieme giostra e gogna, finzione e infinita impostura.
10) Matteo Trevisani, Libro del sangue (Edizioni di Atlantide)
Di che sostanza è fatto il tempo? Forse il tema più profondo, la vera domanda che questo libro ci rivolge, è proprio questa interrogazione: mistica e in qualche modo anche magica.
C’è una sorta di tensione arcaica nel modo in cui Matteo Trevisani arriva a muovere un materiale immaginario che lavora sugli strati più profondi del nostro essere umani. Quanto di ciò che è passato prosegue in noi e si riverbera su ciò che sarà e che saremo? A questo rispondono genealogia e araldica: soprattutto quando si tratta di intervenire su una maledizione.
“C’è una ricchezza in ogni linea di sangue (…) e tutti dovrebbero poter sapere quanto lontano affonda la propria esistenza. Da quanto lontano arrivano. Vedrebbero il mondo con occhi diversi”.
Così quando Matteo si presenta a casa di Alvise, non sa che da lui acquisirà non solo il sapere e il mestiere, ma anche un modo totalmente diverso di stare tra immanenza e impermanenza. E quando riceverà via mail da un mittente sconosciuto il proprio albero genealogico, completo della data della sua stessa morte, avrà una settimana di tempo per riconnettersi al proprio passato, e per capire il vero senso di un monstrum che sembra non essersi mai pacificato.