Dana firma un pallido, scombinato, e un po’ scurrile esempio di comicità alla francese (e al femminile), al servizio di Adjani, Casta, Paradis e altre…
Chi crede ancora che, per ciò che riguarda le commedie, i francesi “lo fanno meglio”, è giunto il momento di ricredersi. Undici donne a Parigi, campione d’incassi in Francia con un milione e mezzo di spettatori lascia a bocca aperta (e asciutta). Perché stavolta il celebre umorismo transalpino lascia il posto a una sceneggiatura gretta e bassa, in un intreccio di situazioni che nulla hanno da invidiare ai nostri volgari cine-panettoni.
La pellicola risponde al desiderio dell’attrice e regista Audrey Dana di affermare che “anche le donne possono far ridere”. Con tale dichiarazione d’intenti la Dana riesce nella difficile impresa di riassumere in poche parole il senso del suo lavoro: un’auto-ghetizzazione del gentil sesso. Ripetendo un errore proprio di un certo femminismo pop, cioè volersi rendere eguali agli uomini annullando le differenze, la Dana narra la vicenda di undici donne di varie estrazioni sociali, orientamenti sessuali, situazioni affettive e lavorative che finiranno, per un motivo o per un altro, con l’incontrarsi. Il ritmo della narrazione, fintamente concitato, conduce lo spettatore per ben due ore di montato attraverso le “peripezie” delle protagoniste: la noia che subentra alla routine domestica, l’insoddisfazione sessuale, la menopausa e l’immancabile tappa dall’estetista.
A vestire i panni delle undici “diversamente eroine”, una sfilata di nomi della moda e dello show business internazionale, di cui Isabelle Adjani, Laetitia Casta, Vanessa Paradis e Alice Taglioni sono solo alcuni.
La visione che la Dana offre dell’universo umano è tanto semplificata da risultare manichea: le donne sono brave, belle e interessanti nelle loro innumerevoli diversità e gli uomini sempre e comunque infedeli, traditori, vigliacchi, mascalzoni. Lungi dal fornire la versione taciuta – quella femminile – della stessa storia e delle relazioni sentimentali, Undici donne a Parigi instilla i germi della misoginia, specie pensando che quest’opera è firmata, recitata e pensata da donne. E se la vicenda narrata fa acqua da tutte le parti, la situazione non migliora certo considerando la regia, tanto inconsistente da venire sopraffatta da un’accozzaglia di situazioni sconnesse e scurrili.
A poco valgono alcuni vani tentativi di unire le molte tessere del puzzle o di trovare un leit-motiv (il maltempo di cui tutte si lamentano). Se questa versione parigina di Sex And The City – al confronto, un capolavoro – segna l’eterno ritorno della commedia rosa disimpegnata e fintamente libertina, non resta che considerarla quale cartina di tornasole delle situazioni che le donne (si spera solo alcune) utilizzano come utile viatico per parlare di sé con altre donne. L’unico modo per riuscire ad arrivare in fondo alla pellicola è considerarlo come un esperimento antropologico, un triste studio sull’abbrutimento dei costumi femminili.