Pensate e pensatevi nel 2050: cosa ci sarà intorno a voi? Tra megalopoli, inquinamento, conflitti 50 artisti propongono una loro riposta alla domanda sul futuro. Che è nelle nostre mani e nella capacità di costruirlo
“Come ti immagini il futuro?” è una di quelle domande che un Millenial definirebbe pretestuosa. La generazione Y che vive un’epoca nella quale la precarietà (di ogni tipo, sociale, economica e, di rimando, personale) cresce in parallelo alle certezze del progresso scientifico e tecnologico, naviga a vista in quella “società liquida” teorizzata da Bauman.
Ci trasferiremo su Marte? Sconfiggeremo il cancro? Ma anche: si raggiungerà – davvero – la parità tra sessi e orientamenti sessuali? La professionalità tornerà ad essere giustamente retribuita? Riusciremo a disintossicarci dalla sovraesposizione narcisistica dei social? Rispondere è un po’ come dare senso ad eterni quesiti “Chi siamo?” o “Da dove veniamo?”.
Come si immagina quella strana dimensione che si chiama futuro l’arte? Guerre, trasformazioni sociali e politiche, nuove scoperte scientifiche: ieri come oggi sono questi gli spunti da cui parte l’indagine dell’artista. Ma se all’alba del XX secolo i Futuristi di Marinetti interpretavano il cambiamento come un’inarrestabile corsa al progresso, oggi installazioni, performance, fotografia ne denunciano il lato più oscuro, preoccupante, asfittico. Denuncia che puntualmente troviamo anche nella mostra “2050. Breve storia del futuro”, a Palazzo Reale fino al 29 maggio.
Ispirata all’omonimo saggio di Jacques Attali pubblicato nel 2006, 2050 prova ad analizzare ipotetici scenari mondiali – gli stessi sui quali ragiona l’economista francese – con le cifre stilistiche di artisti contemporanei. Le 50 opere in esposizione tratteggiano così un quadro a tinte fosche, che descrive l’attuale contesto storico con tutte le sue contraddizioni: super-città, nuovi confini geopolitici, migrazioni, ma anche inquinamento, diseguaglianze economiche, conflitti religiosi, gestione del corpo, del lavoro e del tempo.
Il Futuro di “2050”, in realtà, è un lungo presente di cui siamo testimoni spesso passivi ed è questa consapevolezza a trasmettere un senso di profonda inquietudine.
La frenesia di Los Angeles, raccontata da Metropolis II di Chris Burden, non è la stessa che respiriamo ogni mattina recandoci al lavoro? Gli sguardi rassegnati di chi viaggia nella metropolitana all’ora di punta in Tokyo Compression Multiple di Michael Wolf non sono quelli che incrociamo tutti i giorni? Le comunità cinesi e sudamericane di Mexicalichina di Tracey Snelling non sono le stesse che vivono nelle nostre città, ma spesso regalate ai suoi margini? Il silenzio carico di paura e impotenza provato l’11 settembre 2001 al crollo delle Torri Gemelle (qui ritratte in World Trade Center da Hiroshi Sugimoto) non riecheggia ancora nelle nostre orecchie, davanti alle immagini del Bataclan o dell’aeroporto di Bruxelles? È forse per pietà della Pietà che John Isaacs ha realizzato The Architecture of Empathy, scultura in marmo che cela sotto un velo le sembianze del capolavoro di Michelangelo: un’opera che lo spettatore non può che interpretare come il desiderio di sottrarre la Bellezza all’orrore della Tragedia.
Ma l’obiettivo di “2050” è proprio quello di ricordarci che è impossibile distogliere lo sguardo, sottrarsi alle conseguenze delle scelte collettive e delle loro ricadute: la corsa al progresso così celebrata dai futuristi oggi coincide con le crescenti disparità economiche, alimentari, ambientali, a cui spesso non badiamo “fino a quando non tocca a noi”.
Le disuguaglianze generano nuovi conflitti, di cui siamo tutti obiettivi sensibili. La guerra non è più solo uno scontro tra eserciti, ma tra stili di vita ritenuti inaccettabili, dove l’odio si fomenta con l’intolleranza, la paura del diverso e dell’altro, oltre che con l’interpretazione distorta del credo religioso e il crescente e incontrollato accesso alle armi. Un legame, quest’ultimo, che viene illustrato con disarmante chiarezza dalle opere di Al Farrow, che rappresentano una moschea, una sinagoga e un reliquiario cristiano utilizzando come impalcatura armi e munizioni., a denunciare quanto la magnificenza dei luoghi di culto e la diffusione della fedi si fondino su concetti ben lontani dall’amore professato nei testi sacri delle tre religioni monoteiste.
Rispetto che spesso non proviamo nemmeno per il nostro pianeta, che lasciamo deturpato e impoverito dalla nostra inarrestabile sete di conquista. E se un giorno lasciassimo la Terra? Forse solo allora la Natura potrebbe riappropriarsi degli spazi fin adesso occupati dall’Uomo, come immagina David LaChapelle in Gas Shell (foto d’apertura).
Dunque solo riconoscendo le nostre ataviche paure e ripensando ai nostri reali bisogni sarà possibile cambiare il corso della Storia, da qui al 2050 e oltre. “Let the Future Tell the Truth. Another World is possible”: questo è il monito che lancia Mark Titchner nella penultima sala della mostra, combinando una frase di Nikola Tesla con il motto del World Social Forum. “Come ti immagini il futuro?” ci si chiedeva all’inizio. Forse, la risposta più sensata e coscienziosa, alla fine del percorso di “2050. Breve storia del futuro” può essere proprio questa: come la capacità di pensare ad un altro possibile mondo.
2050 Breve storia del futuro – a cura di Pierre-Yves Desaive e Jennifer Beauloye Milano, Palazzo Reale, dal 23 marzo al 29 maggio 2016
Immagine di copertina: David LaChapelle, Gas Shell, 2012 – ©David LaChapelle Studio, courtesy Jablonka Maruani Mercier Gallery