Amore, amori, tradimenti, perturbazioni, scrittori che diventano personaggi, storie di letti a rotelle e di proibizioni. Il grande classico dell’estate: i libri da infilare in valigia. Ve ne consigliamo cinque: premiati, e da premiare. Chiara Frugoni spalanca le cortine dei letti medievali, Luca Starita indaga di tradimento e romanzi, Carmen Verde esordisce con un romanzo che sfiora lo Strega (ma del quale si sentirà ancora parlare), Maylis Besserie restituisce parola all’ultimo Beckett, Ginevra Lamberti racconta di innocenza e accecamenti.
Ginevra Lamberti, Tutti dormono nella valle (Marsilio)
Non sarà certo un caso che il colle al quale sta appeso il paese si chiami Monco. Perché monco non è solo l’orizzonte, decapitato dalle montagne che tutto chiudono, e allontanano; monco è anche il paesaggio interiore di ogni singolo personaggio del romanzo di Ginevra Lamberti, Tutti dormono nella valle (Marsilio): e ciò che manca determina per ciascuno un destino fatto in eguale misura di penuria e di mai risolta inquietudine.
Non è nata dall’amore, Costanza, figlia di un padre che voleva un maschio e di una madre che voleva una bambola. E pure Livia, l’amica totale dell’adolescenza, è il frutto di una famiglia sbilenca, fondata sull’inabilità comunicativa, nella quale sono i silenzi la regola, e la rassegnazione il pane quotidiano.
La fatica geografica di una terra – cruciale in tempo di guerra, diventata imbarazzante memoria di stenti nella stagione della pace, e infine periferia dimenticabile – si sovrappone all’incapacità di chi la abita di esprimere l’affetto: una tara generazionale che non perdona e azzoppa ogni figlio.
Ma Costanza e Livia desiderano, fortissimamente, palpitare dentro una vita diversa da quella in cui sono state cresciute: sono gli anni Settanta, la libertà va azzannata intera, la diffidenza fa a botte con la necessità di affidarsi, la sete di leggerezza offusca ogni discernimento. Costanza conosce Claudio, e Claudio è tutto quello che il Colle Monco non è: ha capacità di promessa, ha sfrontatezza, è fascinazione. Seguirlo nella grande città e perdersi nel sogno della felicità sono tutt’uno: il prezzo da pagare sarà altissimo.
Ginevra Lamberti è una penna coraggiosa, e racconta tutto quello che della montagna non si racconta: il ritardo che costa, la minorità, la violenza omeopatica e perenne dei ruoli sociali, l’espiazione di chi si allontana.
“(…) Anche tu hai un dono» le dice Natascia, «però è un dono inutile. Puoi capir le cose un po’ prima, ma non puoi farci niente. Quello che ci tocca in sorte lo accettiamo e, quando senti troppa fatica, ricorda che prima o poi passa tutto».
Maylis Besserie, L’ultimo atto del signor Beckett (Voland)
Fono sensibile, severissimo con i suoi scritti, umorale, abitato suo malgrado dal fantasma di Joyce (patrigno, padrone, padre amorevole e invasivo).
Nella casa di riposo del XIV arrondissement di Parigi Samuel Beckett, a ottant’anni, resta un osservatore tagliente di ciò che lo circonda, geloso di ogni singola particella di libertà e di ribellione che la vita ancora gli permette.
La minuziosità della sua giornata, nella quale ogni gesto è misura e fatica, si scontra con l’esasperazione di un corpo che reclama una attenzione inedita, mentre la testa ripercorre tutta la sua esistenza.
Le Tiers-Temps è il titolo originale di questo romanzo di Maylis Besserie (che in Francia ha vinto il Premio Goncourt opera prima): ma il nome della casa di riposo nella quale Beckett effettivamente trascorse la terza stagione della sua vita ricorda, ironia della sorte, anche l’ultimo atto di tanta produzione teatrale, quello nel quale le fila dell’intreccio trovano un senso.
Nella scena che sovrappone i ricordi intimi dello scrittore sullo stato della propria anima ai rapporti oggettivi ascritti al personale della struttura (concentrati sul funzionamento del corpo e sulla valutazione della psiche), la voce di Beckett tira somme, parla di scrittura, prende le distanze dall’ombra – sempre lunga – della sua (terribile) madre, ragiona sulla lingua come luogo in cui la coscienza diventa atto di volontà, si confronta con l’attesa che ha reso immortali i suoi personaggi.
Tagliente, ironico, ribelle nei confronti della sua stessa vecchiaia, il Beckett reinventato da Besserie è, insieme, vivido e commovente.
“(…) sono stato costretto a mettere a punto il sotterfugio seguente. In caso di scocciature, l’unica arma davvero in mano a un vecchio è morire, o reagire in modo passivo. Per quanto mi riguarda, essendo ahimè incapace di produrmi nella prima delle due soluzioni, afferro l’ossigeno, mi stendo sul letto, fingo un’immensa fatica e chiudo gli occhi. Effetto immediato. L’aggressore si vede costretto a smorzare i toni, soprattutto se fa parte del personale, e nella migliore delle ipotesi finisce per tacere”
Carmen Verde, Una minima infelicità (Neri Pozza)
Adelina, Sofia, Annetta: tre generazioni di femminilità discordante.
Irriducibile, sconveniente, imperiosa quella della prima: che, benché finisca rinchiusa, evade a suo modo, fino all’ultimo; crepuscolare, sensuale, misteriosa quella della seconda – inquieta e insieme irraggiungibile; monca, e desiderante, quella della terza. Ed è proprio lei, che è nipote e figlia, la voce narrante di Una minima infelicità, romanzo d’esordio di Carmen Verde pubblicato da Neri Pozza e arrivato nella dozzina del Premio Strega.
L’abnormità (e, dunque, il rapporto sociale tra misura e conformità, vincolo e attesa) è il tema con cui questa narrazione, condotta con una lingua sempre esatta, si confronta: smodata è la vita di Adelina, tra malattia e ribellione, eccezionali sono la bellezza di sua figlia Sofia, nonché la sua capacità incantatoria e l’irresistibile attrazione per la sofferenza; fuori norma è il corpo di Annetta, che non cresce come dovrebbe, e pure la sua immane, conseguente necessità di sentirsi amata e riconosciuta da sua madre.
C’è, nella linea femminile, una complicità dei rapporti perturbata e segreta, che neppure l’arrivo di Clara Bigi (la governante imposta in casa dal marito di Sofia, e padre di Anna, il ricco commerciante Antonio Baldini) riesce a scalfire, nonostante il carico aggiuntivo di crudeltà che la sua sottile tirannia porterà nel ménage famigliare. Dissimulazione o contegno? Calcolo o certezza di una sicura vendetta?
Tutto è circoscritto dentro dinamiche di vertiginosa manipolazione.
Fino all’ultima riga.
“Io e mamma tornavamo alla parete della mia stanza anche più volte al giorno, attente a rilevarne ogni singolo millimetro guadagnato. Eppure, nonostante le continue misurazioni, non so quando esattamente il mio corpo si rifiutò di continuare a crescere. Dovette farlo di nascosto, in gran segreto, perché ogni volta che chiedevo a mia madre: «Sono cresciuta?», «Un pochino, sì» rispondeva lei, mostrandosi contenta.
Da Sofia Vivier imparai, fin da bambina, l’arte oculatissima dell’illusione. Arrivai a crescere fino a tre volte in una stessa giornata”
Chiara Frugoni, A letto nel Medioevo – Come e con chi (il Mulino)
L’ultimo libro di Chiara Frugoni (storica, medievista, ingegno raro e limpido che ha attraversato questo tempo a cavallo tra due secoli formando cervelli di gran caratura) è esattamente una sintesi del meglio che da un testo si può chiedere: intelligenza, spirito, curiosità.
Si presenta come un saggio, si sfoglia come una narrazione per immagini, si legge come un romanzo storico a puntate; e si congeda con la sensazione di aver fatto parte di una scampagnata nel tempo: libera, laica, colta e gustosa.
L’unico mobile importante veramente di lusso della casa medievale, luogo insieme pubblico e privato, strumento di esibizione sociale e asilo di segreti, giaciglio, alcova, pagliericcio: A letto nel Medioevo è una ragionata, continua, brillante rivelazione tra inverni freddissimi e berretti da notte, bottoni profumati usati per conciliare il sonno degli amanti, governanti che ricevono in letti da parata, locande che lucrano sulla capienza dei loro materassi – normalmente condivisi.
Strepitosa la scelta delle immagini, alla cui lettura accompagnano le voci di lettere private e novelle famose, personaggi epici, predicatori e cronisti, canonici e viaggiatori.
In una parola: un gioiello.
“Il racconto giocoso del letto, nel suo trovarsi non solo in una canonica stanza di casa ma in tanti luoghi diversi, pronto a ospitare uomini e donne desiderosi di deporvi fatiche, pensieri ed emozioni”
Luca Starita, Pensiero stupendo – Un saggio sul tradimento (effequ)
Per la sua connaturata capacità a leggere non solo il tempo presente, ma anche la società a venire, la letteratura è un luogo nel quale è possibile porre (e porsi) molte domande, a prescindere dal tempo in cui ciò che leggiamo è stato scritto.
Di questo approccio, condotto come indagine e operato attraverso l’analisi di una scelta trasversale di testi basati sulla narrazione dell’amore imperfetto, Luca Starita ha fatto sistema già nel suo precedente saggio (Canone ambiguo – Della letteratura queer italiana, sempre pubblicato da Effequ).
E se il tradimento – questione tra le più contemporanee che attraversa l’agire sociale del nostro presente – appare certo come tema fondativo nel cuore di storie che non hanno certo incontrato a caso generazioni di lettori e lettrici, è estremamente interessante comprendere, in prospettiva, quanto scaturisce, con le dovute variazioni, dalle vicende raccontate: ovvero che paradigma e deragliamento stanno, spesso, molto vicini.
Se la società è cambiata (posto che lo sia, o non piuttosto che le impostazioni sulle quali poggia si facciano leggere ora anche per insita opacità) come è possibile, interroga questo volume, continuare a stare insieme come abbiamo fatto finora?
È estremamente interessante rilevare quanto personaggi divenuti patrimonio universale (Emma Bovary, Anna Karenina) scaturiscano da contemporaneità di cui evidenziano con i loro comportamenti la contraddizione, e l’inquietudine, attraverso un meccanismo di non rassegnazione. L’intero saggio, del resto, si può leggere anche come una riflessione contro gli automatismi delle relazioni, il controllo, la staticità.
Da Stendhal a Pinter, da Graham Greene a Elena Ferrante e Missiroli, da Alba de Céspedes a Murakami: la galleria del tradimento si spinge a indagare non i perché, ma il perché, e affonda la sua analisi sul principio della scelta della fedeltà.
E poiché tutto è già stato, dalla letteratura, attraversato, è notevole la lettura che Starita fornisce di quanto un fenomeno apparentemente archiviato nel ‘700, come è quello del libertinaggio, abbia già prefigurato comportamenti e scelte che sono nel tempo attuale ri-emersi. E così il visconte di Valmont, la marchesa de Merteuil e le loro Relazioni pericolose risultano anticipatori del pensiero queer e antipatriarcale: a spostare l’asse delle convenzioni, a operare una personale rivolta contro i vincoli sociali, a rifiutare le costrizioni di un periodo politico di accentramento di potere attraverso il sistematico tradimento di ogni obbligo ci hanno già pensato loro. Rileggerli, oggi, potrebbe anche essere un atto di comprensione non banale nei confronti del nostro presente.
“Assistiamo, oggi, a una società affetta da malformazione sentimentale, che manipola una materia di cui non conosce le origini e a cui non è in grado di dare una forma definita”