La costruzione di un argine che rimette in moto vecchie inquietudini, la biografia di una creatura che ha sempre perso ma si è rifiutata di farsi dimenticare, un romanzo di fulmini che vengono seppelliti, un personaggio dalla parte sbagliata della Storia, il fantasma di un amore che decide di chiudere i conti con il passato. In cinque libri, la tradizionale, immancabile, sceltissima lista per il Natale.
Da regalare, o da regalarsi. Con un avvertimento. Mettetevi comodi: non vi molleranno fino all’ultima pagina.
Veronica Galletta, Nina sull’argine (Minimum fax)
Caterina è un ingegnere, e il suo compito è costruire un argine per mettere al riparo il paese di Spina. La pianura padana non fa sconti: prende il fiato d’estate, cancella le cose d’inverno. E, mentre il cantiere procede a colpi di benna dentro e fuori le menti degli uomini, torna ciclicamente il mese di novembre, annunciato da tracce, simboli e presagi in forma naturale: i colchici, una lepre, una farfalla, un istrice, un cervo – l’alfabeto della discrepanza, in un contesto determinato da calcoli millimetrici, dove ogni pietra deve (dovrebbe) essere quadra e ben collimante.
Il passo D’Avenco finisce per riecheggiare, anche semanticamente, l’Averno; e le relazioni che Caterina intesse con gli abitanti del luogo che il suo cantiere cambierà per sempre sono oblique come si addice a quelle creature di confine, che covano segreti rancori e custodiscono saperi e riti.
“Gli spettri delle cose sono più temibili degli spettri delle persone”.
Così mano a mano che la storia procede, e Caterina si trova a fronteggiare molteplici assedi – quello di essere l’unica donna in un cantiere maschile, quello di avere la responsabilità di piegare per sempre un paesaggio al segno dell’uomo, quello di mantenersi limpida a fronte di logiche spartitorie, quello di tenere a bada le ferite antiche che l’hanno congelata dentro di sé – il senso di ciò che sta facendo esonda in ogni gesto.
Veronica Galletta applica la precisione di una lingua tecnologica che, a furia di venire levigata, si scopre capacissima di dire altro: i canali scolmatori, le difese di sponda, le paratoie, gli scatolari, la resistenza diventano catene di metafore che parlano di ciò che viviamo, e rispondono a ciò che siamo, intimamente. Perché per quanto la terra, come la vita, venga percorsa da innumerevoli tentativi di imbrigliamento, oltre ogni più rigorosa logica esiste sempre la possibilità di uno scarto: un incontro, un enigma non risolto, un mistero che va, laicamente, accettato.
“Lei la pendenza la conosce bene. Ci sono molti modi per combattere la pendenza, quello squilibrio che ci portiamo dentro, incastrati fra le cose da fare, nel tentativo di accontentare tutti. C’è chi si afferra a una cartellina con sopra scritta la norma, chi si reinventa capocantiere in pensione, chi fa finta di non vedere le ombre. Ma c’è poco da fare, quando il terreno comincia a cedere si finisce per pendere da una parte. L’unica soluzione è arrendersi, affondare anche con l’altro piede, e pazienza se ci avevano assicurato che la terra su cui camminavamo era fatta per sopportare quattrocento chili”.
Agnese Grieco, Atlante delle sirene (Il Saggiatore)
Esiste creatura più seducente, persistente e fuggevole di una sirena? A giudicare dal poderoso e incantevole lavoro messo in fila in questo libro viene da dire che: no, assolutamente.
Niente ha abitato l’immaginario umano tanto a lungo e tanto indipendentemente rispetto agli innumerevoli tentativi di cancellazione, pur incarnando un ideale più volte sconfitto (ma mai soccombente), perturbante fino al limite del mostruoso (eppure sempre desiderabile), metamorfico fino a creare, di sé, memorie fallaci.
Femmina, maschio; umano, animale, divinità: serve un racconto misto per riannodare all’indietro i fili della storia immaginaria delle Sirene. E Agnese Grieco, sulla tela che intesse relazioni tra luoghi e tempi, convoca scrittori e pittori, chiama in causa il cinema e l’opera lirica, scomoda i filosofi e i poeti. Non lascia nulla di intentato per quello che il sottotitolo definisce, giustamente, come un viaggio sentimentale.
Ne esce un piccolo gioiello, di veste grafica netta e raffinata, nel quale il testo viene integrato e dialoga con le immagini, i cui particolari sono spesso amplificati, producendo nel complesso un curioso effetto di tenue malinconia per le Sirene.
Rubens, Delvaux, Waterhouse, Edward Burne-Jones, le miniature medievali, i codici seicenteschi, i gesti di certe statue sulle fontane, le antiche raffigurazioni vascolari elleniche; e poi Pinturicchio, Dorè, Beardsley, Dalì, Klimt: i corpi e gli sguardi, la morbidezza e le icone.
Avranno anche perso, nella notte dei tempi, la loro gara contro le Muse, ma che lungo infinito incantamento di menti hanno impresso, le Sirene, con democratico puntiglio: da Severino Boezio a Kafka; l’iguana di Anna Maria Ortese; una puntatina a Dublino a servire dietro il bancone dell’Ormond Bar per voce di James Joyce; una paginetta descrittiva di Borges; la testimonianza dei tanti viaggiatori che affermano (giurano) di averle viste almeno una volta; l’eco asiatica delle cugine di Cina e Giappone (e l’ossessione per il colore verde). E, ovviamente, non trascurabili letture psicologiche con relative implicazioni. Tanta, tantissima strada dal perfido Odisseo e dalle follie compiute da Alessandro per onorare la morte del suo amato Efestione.
Del resto, scrive Grieco,
“Le sirene sono nel mondo, la traccia seduttiva di un inizio sempre possibile, una porta che si apre, su qualcosa che c’è e ci aspetta”.
Matteo Trevisani, Libro dei fulmini (Atlantide edizioni)
In un luogo abitato ininterrottamente per oltre duemila e ottocento anni, a che tipo di entropia è esposta la memoria? Certo il passato, a un certo punto, inizia a divenire antico; ma esiste un punto in cui perfino l’antico diventa arcano. E sprofonda nel tempo della fondazione.
Così pure i luoghi in cui Roma (sopra la terra e sotto il livello dei palazzi barocchi) mostra le rovine dei secoli in cui divenne impero nascondono in realtà un ulteriore, più profondo strato: è il tempo della prima religio, la traccia apparentemente labile di un mondo in cui scrutare il cielo era la chiave per indovinare i segreti della terra.
Saper guardare, però, introduce anche nel presente uno scarto, e presto tutto parla in modo molto più misterioso, e pericoloso. Questo apprende Matteo, perché la sopravvivenza del mistero è una cicatrice che sovradisegna la geografia della città: lì dove ogni fulmine caduto ha avuto il suo funerale, una pietra ancora indica il luogo preciso dell’impatto, a sigillare ciò che la potenza elettrica per gli antichi era in grado di fare – mettere in comunicazione il mondo dei vivi e quello dei morti.
Esce in versione economica il romanzo d’esordio di Matteo Trevisani, Libro dei fulmini: storia di catabasi e di iniziazione, voce di singolare carisma, sguardo che impone l’ascolto di una delle più potenti fascinazioni che continuiamo ad avere sotto i nostri occhi anche quando ci ostiniamo a non voler guardare. Il passato non è mai stato tanto contemporaneo.
“Pensare che quello che accade sopra di noi possa affondare le sue radici sotto di noi porta con sé innumerevoli conseguenze, fino ad arrivare a credere che le profondità della terra nascondano i segreti del cielo, e viceversa”.
(Se chiudendo l’ultima pagina vi verrà da prendere il primo treno per Roma perché vi è presa la smania di rivedere tutto, beh: è comprensibile. Quando la letteratura è ben fatta, succede).
Ben Pastor, Lumen (Sellerio)
Suona Schumann, legge le Eumenidi di Eschilo (e si commuove), si è sposato a precipizio, ma – comandato dai suoi incarichi di guerra a starsene lontano dalla donna che ama furiosamente – si strugge in monacale costrizione; è aristocratico, bello, volutamente allontanante, ombroso; per formazione, da ex brillantissimo studente di filosofia, si fa sempre una domanda in più rispetto a quello che gli viene richiesto. E si trova, totalissimamente, dalla parte sbagliata della Storia.
La prima avventura di Martin Bora, ufficiale della Wehrmacht, torna ad essere pubblicata da Sellero in una nuova collana economica: una fortuna sfacciata per chi non ha ancora incontrato l’esordio strepitoso di un personaggio perfettamente complesso.
Ben Pastor si è inventata un protagonista scomodo e fascinoso, e l’ha cacciato in mezzo all’inferno regalandogli una coscienza che reclama ascolto scalpitando. Accanto, per questa storia ambientata a Cracovia nel 1939, gli ha piazzato un sacerdote con la passione della boxe e un coinquilino di insopportabile mollezza.
Quando Madre Kazimierza, la superiora del Convento di Nostra Signora delle Sette Pene in odore di santità, viene uccisa nel bel mezzo del chiostro, Bora dovrà farsi strada tra devozioni estreme, sospetti incrociati, manovre politiche e bellissime e pericolose presenze femminili.
“Padre, da qualche tempo tutto è diverso. Giustizia e ingiustizia, onore e disonore… sono solo parole. Parole confuse, di cui non riconosco più i confini. Nessuno lo può fare al posto mio e questo mi spaventa, mi spaventa l’idea di dover scegliere. Di dover scegliere uno degli opposti quando sono così confusi tra loro, e continuare, andare avanti, senza sapere se ho fatto la cosa giusta, se la scelta è stata saggia, quando la saggezza non so più dove andarla a cercare. Mi è svanita davanti, quella gran coppa di saggezza cui aspiravo e a cui mi ero illuso di attingere, almeno in parte. Non c’è niente, dentro. Niente”
Richard Russo, Le conseguenze (Neri Pozza)
Quarant’anni dopo, tre amici si ritrovano nel luogo che ha segnato per sempre una svolta nella loro vita.
Lincoln, Teddy e Mickey sono stati, al College, una cosa sola: hanno condiviso il tempo in cui, lontani finalmente dalle famiglie, dalle magagne di adolescenze inquiete, per la prima volta hanno determinato ogni scelta, ogni pensiero, ogni minuto della loro giornata.
Gli anni Sessanta, le feste, la musica, la vertiginosa sensazione di vivere in un momento in cui tutto sarebbe stato possibile, le lezioni che aprono la testa all’impensabile: l’amicizia diventa un terreno nel quale appropriarsi di sé e del mondo. Soprattutto perché, di quel sé e di quel mondo, fa parte anche Jacy: protetta, desiderata, ammirata, sodale di ciascuno in modo precipuo e insostituibile.
Fino a quell’ultimo weekend in cui, all’apice di quella condivisa sensazione di inizio (dopo la laurea, solo una settimana dopo, le loro vite sarebbero state decisamente qualcosa di diverso) Jacy scompare nel nulla.
Ritornare sull’isola dopo quattro decenni significa fare i conti con un fantasma che, a ben guardare, non li ha mai abbandonati. E arriva il momento di fare i conti.
“Quello che voglio dire è che ci sono un sacco di cose che non sappiamo delle persone, anche di quelle che amiamo di più. Ci sono cose che non ti ho mai detto di me, e probabilmente ci sono delle cose che non sono affari miei e che tu non mi hai mai detto. Ma le cose che teniamo segrete tendono a rappresentare proprio il cuore di ciò che siamo”
Un favoloso meccanismo narrativo messo in moto da Richard Russo: niente, davvero, è come appare.