Rapida guida ai titoli consigliatissimi di quest’anno: uno vi farà aprire gli occhi con un orizzonte più lungo, un altro vi chiederà di tornare a guardare il mondo come non fate da tempo; c’è, naturalmente, un noir col botto (e un po’ di ragionamenti sulla memoria, che non guasta!) e poi un ripescaggio storico di tutto rispetto (vent’anni di onorata carriera tra gli scaffali, ed ora una nuovissima edizione). Infine, una storia di libertà e di rinascita, di pacificazione e di confronto.
Insomma, l’irrinunciabile consigliatoio letterario natalizio: per leggere bene, per pensare agli altri, per stare con sé.
Milena Agus, Un tempo gentile (Nottetempo)
“Fu quindi un Natale da avanzi dell’umanità, ma decisamente diverso da tutti gli altri, visto che finalmente tirammo fuori dalle credenze i preziosi apparecchiamenti per allestire la tavola del Rudere, che fu curata e sontuosa, perché ognuna di noi portò il meglio: le posate buone, i bicchieri di cristallo regalati al matrimonio, la tovaglia e i tovaglioli del corredo ricamati a mano, i piatti a disegni blu del nostro Ottocento sardo, che tanto a lungo erano stati considerati inutili. (…) Non fu un vero Natale, fu un ripiego, un adattarsi bene o male alle circostanze, una misera consolazione, ma adesso, che è passato del tempo e le immagini cominciano a dissolversi, quell’accozzaglia aveva qualcosa di inspiegabilmente felice, quel giorno aveva qualcosa di inspiegabilmente gentile”
È un paesino della Sardegna. No: niente coste smeralde, niente aperitivi fronte-mare. Siamo all’interno, invece, nel Campidanese, dove con la terra si combatte da sempre per cavarci qualcosa da mangiare. A vincere, a suo tempo, è stata una svista: scambiare la monocoltura di carciofi e biomasse per la chance che avrebbe fatto svoltare tutti. Invece.
Invece il paese c’è ancora, per carità. E i giorni, bene o male, si campano pure. Però che qualcosa non abbia funzionato è evidente: si respira proprio, nell’aria. Nessuno ci arriva mai, al paese. Non ce n’è motivo. È così che, nella lontananza, la vita ristagna ai bordi di una depressione che nessuno ha il coraggio di dire – e, se va bene, viene travestita da rassegnata tradizione.
Quando qualche logica burocratica assegna a questo pezzo di terra sbreccata il destino temporaneo di centro di accoglienza per un gruppo di migranti (e per i volontari che li accompagnano), la comunità del paese viene all’improvviso costretta a esporsi all’incontro con l’altro.
Milena Agus racconta dall’interno la vicenda di questo incontro nel quale nessuno ha scelto nulla: né (come subito vengono chiamati) “gli invasori” – che sui corpi e nell’animo si portano addosso l’abnormità della migrazione; e neanche gli abitanti: costretti dagli eventi a fare conoscenza diretta con la macrostoria, poiché l’attualità rigurgita all’improvviso dentro le strade del paese.
“Non è questo il posto” dicono, dalle sponde opposte, ospitanti e ospitati: gli uni incapaci di contenere la novità enorme, gli altri percependo che quel luogo è un nessun luogo, e non assomiglia a promesse desideri e aspettative riposte.
Oltre la linea di demarcazione che salda nella scontentezza “mariti” e “neri musoni”, si matura nei giorni una rivoluzione intima per chi accetta la curiosità e l’incontro con l’altro – mentre la connotazione dei nuovi arrivati slitta dalla diversità a differenza.
Sono le donne del paese a camminare con altro passo, a innescare un avvicinamento che cambierà per sempre la percezione delle relazioni, e permetterà alla comunità (tutta intera) di vedersi insieme all’interno di un codice comune fatto di desideri di cose semplici (una gita al mare, un sorriso) e altre divenute in questo tempo inspiegabilmente complicate (il rispetto, l’accoglienza, l’ascolto).
Impararsi reciprocamente innesca un contagio che cambia gli animi, le abitudini, ridesta il desiderio, fa riaccendere il forno del pane rimasto freddo da quando la comunità si è assopita e chiusa. Il contagio regala un Natale fatto di più religioni e di nessuna: costringe a guardarsi, ad ascoltare il paesaggio violato, a ripararlo – a ripararsi.
Un libro notevole, che rifiuta semplificazioni e autogiustificazioni: profondamente umano.
Graziano Gala, Popoff (Minimum Fax)
“È scorretta questa vita che prevede che quel buio a qualcuno sia terrore, ad un altro cacciagrossa”
Come si comporta una società che ha perso (colpevolmente) l’innocenza quando a interpellarla, casa per casa, è un innocente? Se a tirarla fuori dalla cecità non è solo un bambino, ma un bambino che si è perduto, che cerca prima il padre e poi la madre, che interroga (più ostinato del cocciopesto) ogni anima costringendola a guardarsi dentro, e reciprocamente, e nella statura del proprio presente?
In questo nuovo romanzo, Graziano Gala mette le mani in pasta nella materia più profonda del nostro immaginario – ovvero, la fiaba. Per riuscire a scendere nelle tenebre più oscure (quelle che stracciano il cuore per ognuno degli zolfanelli accesi dalla Piccola Fiammiferaia, e terrorizzano con le ombre nere dei Fratelli Grimm) usa una lingua metrica, che si fa di pagina in pagina incantesimo, e poi canto, a volte perfino preghiera, e sempre poesia.
In questo modo Popoff, il marmocchio malconcio, diventa strumento di nemesi per la comunità che intera ha scelto di dimenticare il cielo e le lettere, accettando il proprio sprofondamento.
Se con Sangue di Giuda tutti gli stralunamenti feroci del paese si muovevano con moto centripeto verso il protagonista, condannandolo al terrore dei suoi fantasmi, qui la parabola muove dalla forza opposta: al cuore di tutto sta Popoff, ma la sua vicenda, le sue parole, ciò che gli accade agiscono sulla comunità con forza centrifuga.
Ognuno (dentro a un mondo popolato di violenza perpetrata o subita, in cui ogni forma di gentilezza è espunta) inciampa a suo modo nel corpo del bambino: una galleria di uomini a cui tocca trovare un modo per rispondere alla sorpresa del nuovo arrivato. Nel bene e nel male ciascuno si sente chiamato a misurarsi con significati del tutto perduti: gratuità, grazia, solidarietà, aiuto. Così è per il vecchio Cimino che fatica ad accogliere in casa lo sconosciuto, per il prete riottoso Don-Ato che conosce solo la lingua della ruvidezza, per la ricca galleria di prototipi umani mostruosi che – come in tutte le fiabe che si rispettino – metteranno a dura prova la resistenza non tanto dell’eroe (può un bimbetto essere un eroe?) quanto di noi lettori.
Proprio come in ogni fiaba ben scritta, è esattamente questo l’incantesimo a cui questo romanzo ci muove: farci ripiombare nell’infanzia, tirarci fuori dalle poltrone del sopore, costringerci alla reazione. Ed esporci alla catarsi.
Carla Maria Russo, La sposa normanna (Neri Pozza)
«Tutte le donne del paese vedranno il piccolo uscire dal ventre della madre, che soffre e rischia come una di loro» ribadì Costanza, testarda. «In ogni istante del travaglio e nel momento della nascita, deve essere presente nella tenda un numero di testimoni tale che nessuno possa mai più, in futuro, sollevare dubbi sulla legittimità del bimbo. La mia dignità non ne sarà sminuita. Eseguite gli ordini, Anselmo di Upsala».
Esistono libri che arrivano con anticipo a toccare le corde di temi destinati a diventare lettera condivisa soltanto a distanza di tempo. Questo è, probabilmente, uno dei motivi che ha sostenuto, in questi due decenni, il successo de La sposa normanna di Carla Maria Russo: un titolo che non solo si è rivelato duraturo, ma che è anche ora approdato, in nuova veste, nel catalogo di Neri Pozza.
Protagonista è Costanza, l’ultima erede diretta degli Altavilla, che viene forzatamente costretta a lasciare il convento dove si è ritirata per essere data in sposa a Enrico di Svevia, figlio di Federico I Barbarossa.
Mettere insieme le due corone (il Regno di Sicilia e l’impero degli Hohenstaufen) significava tacitamente costringere in una morsa le terre del Papa, Innocenzo II. È chiaro, quindi, come tutto lo scacchiere internazionale del XII secolo guardasse attentamente a questa unione, il cui scopo era – a tutti i costi – la procreazione di un erede che avrebbe fatto pendere le sorti dell’Europa verso un potere germanico.
Fin qui l’impianto storico, che prevede la partecipazione di tutti i nomi di riguardo degli schieramenti del tempo, da Gualtiero di Palearia (fiduciario del Papa) a Markwald di Anweiler (braccio armato dell’imperatore).
Carla Maria Russo decide però di assumere un punto di vista decentrato: la sua Costanza d’Altavilla ripercorre le decisioni coraggiose e temerarie della sovrana riempiendole di pensiero. Il tema è la sopravvivenza della sua persona dalle angherie del brutale Enrico in mezzo alle trame di corte, al fine di proteggere la gravidanza tardiva e sorprendente che la incontra a quarant’anni. Se il figlio nascerà, sarà il suo estremo atto di ribellione: lo chiamerà Costantino, per sottolineare che la corona degli Altavilla, la civiltà raffinata e colta del Sud Italia, avrà una chance per sopravvivere, e sarà una sopravvivenza (dal punto di vista politico e culturale) matrilineare.
Non piegata: è così che Carla Maria Russo tiene a far muovere la sua Costanza. Integra nell’orgoglio dell’appartenenza alla corona di Sicilia, resistente rispetto alla melma che gli antagonisti politici le muovono intorno, risultanza (nella bellezza e nel pensiero) in tutto e per tutto di quella civiltà cortese che per prima formula un nuovo codice di comportamento tra i sessi.
Così, anche quando muore (e Costantino, divenuto Federico, resta solo e negletto tra la corte e i vicoli di Palermo) la sua impronta resta: femminile, resistente, capace di decisioni inedite e fuori dal comune.
Valeria Tron, Pietra dolce (Salani)
“Certi libri sembrano scritti per scollarsi dalle beghe dei giorni, e invece li inchiodano al muro, i giorni, proprio come un calendario”
A Lisse manca la “U” per chiamarsi come l’eroe di Omero, perché la donna che l’ha salvato, e battezzato, non ha voluto curvargli il destino con quella lettera che assomiglia troppo a una gerla da carico.
Il destino, però, lo ha cresciuto bello, e valente, e gentile come ogni eroe che si rispetti.
Anche indomito sarebbe, Lisse, se il suo cuore di naufrago di terra fosse sopravvissuto alla morte della sua felicità: a ventisette anni, ha già cinque croci, e sono tutte le donne importanti della sua vita. L’ultima tragedia, però, lo ha azzerato.
Così, lassù nella Val Germanasca, terra di miniera e di cascata, ci vuole costruire un miracolo grande per restituirlo ai giorni: ed è la catena umana dei fedeli, fedelissimi amici a mettersi in moto per impedire a Lisse di schiantarsi.
In quanti modi un libro salva? Salva per personificazione, quando permette a una vita fratturata di proiettarsi dentro i contorni dei propri beniamini; salva per prospezione, quando offre a chi è schiacciato dentro un presente invalidante un sistema alternativo di valori e di comportamenti nei quali sperare; salva per identificazione, quando in chi ci circonda consente di decrittare lembi di archetipi e di ideali. Cèsar, sopravvissuto a un fulmine, Tedesc (che germanico non è mai stato), Giosuè (orfano allevato dalla zia) mettono insieme la loro esperienza di superstiti per recuperare l’amico, caduto in una voragine ben diversa da quelle con cui, quotidianamente, si giocano la loro vita dentro la miniera di talco nella quale lavorano.
In una lingua che mescola con estrema precisione italiano e patois, Valeria Tron, dopo L’equilibrio delle lucciole, inventa una nuova opera corale nel segno della continuità tra elementi: il mondo dove il destino di Lisse si circoscrive è un universo di ultimi e irregolari, dove trovano posto oracoli laici e capre di rara intelligenza, cascate che chiedono di essere ascoltate e corve col dono del commento.
E proprio quando tutto sembra aver raggiunto un suo, solitario, equilibrio, qualcosa cambia il destino di tutti.
La nuova “idea evoluzionaria” con cui il tempo costringerà a misurarsi sarà la capacità di ricordare; la capacità di perdonare.
Jacopo De Michelis, La montagna nel lago (Giunti)
“Forse era anche quella cosa lì l’amicizia, di cui Pietro, per la prima volta nella sua breve vita, da qualche mese stava sperimentando tutta la portata: un legame reciproco talmente intenso che ti permette di attingere alla forza altrui e sommarla alla tua, rendendoti capace di compiere imprese e raggiungere traguardi che diversamente ti sarebbero preclusi”
Che cosa insegna True Detective, se non che bisogna (sempre) diffidare dei luoghi che paiono fermi nel tempo, immersi nel sonno di una perenne periferia?
Allora ecco Montisola, arroccato scoglio nelle acque del Lago d’Iseo: italianissimo locus amoenus che pare essersi incagliato in una routine dimessa di frontiera depressa (e depressiva).
È il 1992, il turismo di massa è ben lontano da venire: dall’isola e dalle sue modeste routine, al massimo, si scappa appena si può. E così ha fatto Pietro Rota, abbandonando di strappo Cristian e Betta gli amici di sempre, lasciandosi indietro l’orizzonte ben noto e un padre aspro, imperioso e incattivito.
Meglio per lui Milano, meglio il sogno del giornalismo, meglio dirsi che – finalmente lontano – lo squallore di arrabattarsi ha pur sempre il sapore di uno squallore metropolitano.
Certo, quando suo padre Nevio viene accusato del brutale omicidio di un suo coetaneo, a Pietro tocca di malavoglia tornare sull’isola.
Con una abnegazione riluttante comincia a indagare nel paese immobile, dove la memoria conserva, malcelate, leggende di mostri lacustri e scomode memorie fasciste. C’è un albergo fermo in un tempo di contrabbando e di guerra, c’è il nome di una ragazza, ci sono le storie dei soggiorni nazisti, gli orrori della Decima Flottiglia Mas: una catena di tracce che, all’indietro, ridisegna la geografia delle sponde per restituire dall’acqua una rete fantasma di vite solcate dall’ombra.
Esattamente come ne La stazione, sono i meccanismi di emersione (e le collegate rimozioni) a battere il tempo di questo romanzo: quasi a ricordare che lì dove la perfetta superficie del lago incornicia oggi luoghi all’apparenza pacificati, nel fondo (o ai lati del nostro sguardo) rimane la responsabilità della memoria di ciò che è stato. Persino la più insospettabile bellezza sulla quale posiamo il piede può essere stata, un tempo, epicentro di cause diventate poi catene di conseguenze, diventate altre cause e altre conseguenze – fino a lambire il nostro presente.