Un grande ritorno voluto dal direttore artistico del teatro, Piero Colaprico. L’occasione è quella festiva, di un pranzo di famiglia. Viola Marietti parte da un’esperienza autobiografica per riflettere sulle paure di chi è a metà tra generazione X e Millennials. L’abbiamo intervistata. Uno spettacolo che procede a quadri, schietto, realizzato per la regia di Tristeza Ensemble (Viola Marietti, Matteo Gatta) con la collaborazione come dramaturg/supervisore artistico di Gabriele Gerets Albanese
Caso, libertà, piacere, fare. Poi. Prima ALDST, Al Limite Dello Sputtanamento Totale, lo spettacolo che Viola Marietti scrisse a partire da un testo autobiografico che dovette presentare a un laboratorio nel 2019. Lo ritirò fuori dal cassetto in occasione di un altro laboratorio con Michele Sinisi.
«Un po’ ritrovato per caso – specifica la Marietti – lo lessi in occasione di un laboratorio con Sinisi. Bene, questo testo se non lo fai tu, con tutte le voci mi disse – ricorda l’attrice – lo faccio io».
A volte forse basta che qualcuno ti indichi la via. Anni dopo, tra riprese e repliche, è in cartellone ed è ritornato vicino alle festività natalizie a Milano. «Amore e odio per questa città – afferma la Marietti – È la mia città. Torna a casa questo spettacolo, mi piacerebbe – continua – un po’ da mitomane che diventasse un po’ come Una poltrona per due, un classico che si ripete in cartellone a Natale».
Il caso, «la libertà di non compiacere necessariamente le mode teatrali e il mondo istituzionale, un appagamento della libertà più profonda, smettere di autocommiserarsi e fare. Tanto si parte sempre dai garage».
Un’attrice figlia d’arte che lavora in sordina, quasi nascosta che ripete – stanca – di essersi sì messa da sola in questo ginepraio. «Non me lo ha ordinato il medico di fare questo mestiere. Ho vissuto il senso di complessità – dichiara anche nello spettacolo – dell’essere figlia di genitori di successo», ma poi la vita ti mette davanti a te stessa, te stesso.
E un pranzo di Natale con i suoi psicodrammi diventa l’occasione per fare conti e bilanci nei confronti dei genitori che ci hanno messo al mondo, che forse mettiamo su altari, di cui e su cui riusciamo a fare discorsi da soli lanciati tra passato e futuro. Di come siamo stati e trattati, di quello che osserviamo, delle libertà – le nostre – messe in discussione – a partire dai nostri credo spirituali e politici quando sdoganati da indottrinamento o doverismi perché qualcuno ce li ha trasmessi, se non inculcati. Libertà. Appunto. Dai modelli genitoriali, anche. In mezzo il presente. I conti con sé stessi.
Una sedia gialla, uno stand appendiabiti essenziale d’acciaio con giacche appese funzionali a cambi di ruolo e quadri, luci di natale regolabili appese al soffitto. Un teatro schietto, una scenografia semplice, un gioco di ruolo d’attrice che nella precarietà della vita, all’interno di un’esistenza normale, cerca di farsi strada, tra amici in equilibrio precario sull’esistenza come lei, quando il futuro non ha più la leggerezza di gioventù.
Quando bastavano un appuntamento con la compagnia al parchetto e le prime cotte per sentirsi al centro di tutto, di una felicità semplice e immediata, presente. Tra osteopati olistici che ricordano il disequilibrio, parenti e famigliari con i loro credo, alle prese, a loro volta, con le loro emozioni e vite, fidanzamenti liquidi, rapporti occasionali, un cane e la nonna con le perdite di memoria ma che riesce a fare sempre le domande giuste, precise e puntuali: «Come va con gli studi? E il lavoro? Quando ti sistemi?».
Uno spettacolo ironico, caustico che non lascia concessioni, nemmeno politiche. Che cos’è la destra, che cos’è la sinistra? verrebbe da chiedersi (gaberiana memoria), che idea ne abbiamo, che cosa dovrebbe essere davvero la libertà e la laicità. A chi e che cosa credere, oltre al fatto del non arrendersi all’idea di essere un “prodotto” biologico, nella quotidianità spesso banale, ordinaria, fatta di lavatrici, sigarette, qualche birra, case da pulire così come le proprie lenzuola con la convinzione di doversi meritare qualcosa dal momento che si è in vita. «Nascere, ma rinascere» è la vera impresa.
Un tourbillon di personaggi, toni, pause, arguzia psicologica a cui Viola Marietti dà vita, attingendo dalla sua, per raccontare di un momento alla ricerca di sé, in un tempo dove ancora quarantenni vivono in appartamenti condivisi, in una fatica anche economica.
«Lo spettacolo parlava di una post adolescenza, ormai ho trent’anni. Ma molti miei conoscenti quarantenni – dice Viola Marietti – ancora si riconoscono». Specchio dei tempi senza piangersi addosso. Di chi al di là di tutto butta uno sguardo fuori dalla finestra, un pc acceso, lascia il tempo del Natale alle spalle e trova un momento di resurrezione nel tempo della primavera, nel volo di una rondine.
La vita di un’attrice, con il suo fare, con le sue tournée e la ricerca di alloggi, la precarietà, con la sua ricerca di bandi, con il suo scrivere schietto come lei che non ha paura di dichiarare «che la libertà appunto è anche non compiacere le mode teatrali. Dire al microfono parole disconnesse in mutande: un’avanguardia che non era più nemmeno avanguardia appena dopo gli anni dell’avanguardia e nell’avanguardia forse», quella libertà di un personaggio che ha creato – come il clown scespiriano di un Otello al femminile per la regia di Andrea Baracco.
Uno spettacolo a ribaltare la storia, a interrogarsi sulle relazioni, «lontano dallo stereotipo gender», ma piuttosto nel solco di una tradizione storica rovesciata se è vero che fin dall’Antica Grecia, alle donne era vietato recitare – i ruoli femminili, occorre ricordarlo, erano impersonati solo da attori uomini – così come in piena epoca scespiriana. Bisognerà attendere l’Ottocento, con le dovute eccezioni, perché il ruolo di donna attrice come mestiere di caratura culturale si possa consolidare.
Caos, libertà, piacere, fare. Quello che arriva quando ci si impegna. Uno spettacolo catartico. Un augurio di «buona guarigione – forse un po’ naif, poi aggiunge l’attrice – E la cultura che non debba voler dire noia, ma piacere ed elevazione del quotidiano».
Le luci della sala si abbassano, qualcuno tra il pubblico durante alcuni passaggi dello spettacolo mormora: «che tristezza, che tristezza». La commedia è così, fa sorridere e riflettere. Lo spettacolo verrebbe da dire ha impattato nella sua semplicità di un ritorno artigianale al fare teatro, con al centro la voce e il corpo di un’attrice alle prese con sé stessa. Una storia personale che diventa universale.