Al Piccolo Teatro Melato, si conclude la trilogia liberatamente ispirata a Basile. In “Re Chicchinella” tornano corpi trasformati in strumento di una partitura accurata per una favola sul potere. Che si rivela però meno disturbante di quanto forse vorrebbe.
“Vorrei tornare indietro
per rivedere il passato
per comprendere meglio
quello che abbiamo perduto
viviamo in un mondo orribile
siamo in cerca
di un’esistenza
La gente è crudele
e spesso infedele
nessun si vergogna
di dire menzogna”
La Passacaglia di Franco Battiato, con cui Emma Dante fa finire il suo Re Chicchinella, in scena, tutto esaurito da giorni, al Teatro Studio Melato, è una lente di decodifica efficace del lavoro con cui la regista siciliana chiude la trilogia di reinterpretazioni de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. A valle de “Il pupo di zucchero” e “La scortecata”, la vicenda è quella surreale di re Carlo D’Angiò, che depone uova d’oro perché all’interno del suo corpo è entrata una gallina incautamente usata dal sovrano per pulirsi. Trova quello che si aspetta, la platea stretta per occasione, sacrificando il caratteristico cerchio del Melato per addossarsi al florilegio di corpi che riempiono una scena vuota. Corpi dai fianchi allargati a simulare varietà posticce, mentre calzemaglie e cuffie minimizzano le differenze di genere e le identità.
Il mondo orrorifico che Dante tratteggia è quello di un potere di uguali identici moltiplicati che ingabbiano persino il re, che quel potere dovrebbe rappresentarlo. È solo la macchietta di un re vestito di rosso, l’uomo abbandonato in balia di tredici grottesche “damigelle”, col solo compito di continuare a incassare uova d’oro, di nutrire, forzosamente l’ingordigia della corte. A cui il sovrano può reagire soltanto imponendosi un digiuno che, uccidendolo, uccida anche la gallina che dall’interno gli mangia le viscere.
L’immaginario su cui Emma Dante si poggia è quello mostruoso di un potere in balia delle sue parti meno nobili, in cui anche le principesse si spogliano del ruolo per diventare parte dell’ordalia di cortigiane che non fanno altro che farsi l’eco, tra lusinghe fasulle e odio scoperto, sputato con la stessa violenza di quel che si ingurgita o non si espelle.
Contro al re prigioniero del dolore e dell’ossessione escatologica, dura poco l’apparenza composta di vuoto cicaleccio, un gallinaceo di finto francese. Rapidamente, anche il cibo si trasforma in un’arma, per una corte che si ingozza e vomita, tenta e disgusta. Finchè il potere di cui è stato fantoccio miete la vittima di un uomo perduto, straziato dal dolore fino a eviscerarsi, e festeggia la sopravvivenza di un potere che non ha bisogno nemmeno di essere umano per generare ricchezza, e si celebra la maestà di una gallina che, dopo esser stata incarnata, in apertura di sipario, da esseri umani in teste di pennuto e il tipico movimento del collo alla fine sovrasta, anche fisicamente, in tutta la sua natura animale, un corpo morto.
In questo lavoro, gli amanti di Emma Dante trovano quello che si aspettano: l’espressività incantatoria di una lingua centellinata con cura, il napoletano di Basile, ma soprattutto quella di un teatro fisico espresso al in tutte le sue possibilità, da un gruppo di attori che fanno, con il loro corpo, uno sfoggio di talento studiatissimo. Ben tredici, in scena, su cui si segnalano il re, un intenso Carmine Maringola, coperto solo da un ampie piume nere che all’inizio pulsano come meduse, e la durezza, anche nei tratti, della regina di Annamaria Palomba. Su una scelta sonora che fa dialogare l’antico con un contemporaneo ben scelto ed esplicativo, Emma Dante torna a utilizzare il nudo e in generale gli espedienti offerti dal corpo e dall’evocazione spinta della corporeità per trasmettere un messaggio chiaro.
Scelte che possono senz’altro colpire una parte del pubblico, ma che, se intendono inserirsi tra le “provocazioni” hanno, oggi, poco di dirompente. Se si è parte della platea di appassionati, che si lasciano coinvolgere e cedono spesso alla risata, si esce dal teatro con l’appagamento di chi ha avvertito smuovere corde note, e di certo non mancano spunti anche in chi crede nella molteplicità dei livelli di lettura, consapevole che non manca certo un’urgenza di senso, dentro la grevità e la apparente gratuità della messa in scena della volgarità (o della sua rappresentazione in scena. E, tuttavia, resta il dubbio di un’occasione almeno parzialmente non colta, fosse in direzione di un eccesso di disturbo da imporsi allo spettatore o, per contro, di un maggiore approfondimento.
C. P.