In prima mondiale alla Pergola di Firenze (fino al 12) lo spettacolo che Robert Wilson dedica al poeta e scrittore portoghese. Capolavoro di sintesi e di riflessione su vita e letteratura. Tra poco in tournée europea, torna in Italia nel 2025.
Sostiene Pessoa: “Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia, non c’è niente di più semplice. Ci sono solo due date, quella della mia nascita e quella della mia morte. Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei”. Ma non è vero (e anche lui sperava non lo fosse): le opere e i giorni di Fernando Pessoa sono anche nostri, lo saranno, ancor più oggi grazie a Robert Wilson, che al poeta e scrittore portoghese di Maschere e paradossi e del Libro dell’inquietudine ha dedicato uno dei suoi spettacoli più abbaglianti, sintesi di un intreccio tra vita, parola e pensiero, debuttato a Firenze in prima mondiale. Chi crede che Wilson, dopo cinquant’anni di teatro, si sia fermato o abbia rallentato il passo, non sa di cosa parla. Chi si ostina a restringerlo nell’immagine di una drammaturgia estetizzante e lenta, ha tempo di correggersi, se ha occhi per vedere e qualche attrezzo per riflettere. Pessoa. Since I’ve been me è ancora in scena alla Pergola di Firenze fino al 12 maggio, in una produzione Francia-Italia – Théâtre de la Ville e Teatro della Toscana – e coproduzione di Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Stabile di Bolzano, Municipal di Lisbona, Festival d’Automne di Parigi e Théâtres de la Ville de Luxembourg, che illustra lo spirito dell’Europa.
Pessoa. Since I’ve been me – traduzione approssimata: Da quando sono io – parla quattro lingue: inglese e portoghese (come Pessoa, che le governava alla pari), francese e italiano. Non ci si perde, comunque: i sovratitoli ci catturano a ogni parola che Wilson ha raccolto dal mondo inquieto e inafferrabile di Fernando Pessoa, che per raccontare di lui e di noi aveva un’idea incredibilmente teatrale: ”Un uomo potrebbe, se possedesse la vera saggezza, godere dell’intero spettacolo del mondo da una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, solo con l’uso dei sensi e con un’anima incapace di essere triste”.
Lo spettacolo di Robert Wilson è uno sguardo sul mondo: un’ora e un quarto di densità che la lingua wilsoniana, scavata nella luce e nello spazio, distilla con leggerezza sublime. Pessoa. Since I’ve been me è un altro balenìo di cose semplici che conservano al teatro di Wilson un posto a sé. Ritroviamo in Pessoa il segno scenico astratto che genera emozione di per sé. Dal vago spazio di un fondale naturalistico, ispirato a un dipinto di Santiago Riveiro, Fishing, si rientra in una geometria dominata da bianchi macchiati di rosso. Non manca la natura stilizzata in alberi asciutti e teste di animale; c’è l’eco del viaggio, forse, in una contorta alberatura di nave; un interno città nella fila di tavoli bianchi che andranno a disfarsi di tovaglie e di gambe, contro una porta rossa che conduce chissà dove, prima di scomporsi in un grande pannello vermiglio.
Sette i personaggi: Pessoa con baffetti occhialini e cappello, come appare nel fine Retrato di Almada Negreiros, insieme ai suoi “eteronomi” – Alexander Search, Bernardo Soares, Vicente Guedes, Alberto Caeiro, Álvaro do Campos, Ricardo Reis -, ovvero gli autori che Pessoa creò per fuggire da sé, inventarsi diverso, diventare un altro scrittore, un altro uomo, per tornare, alla fine, a confrontarsi con la sua realtà in perenne mutazione. Sette attori multilingui parlano e cantano i sette Pessoa in scena, precisi nell’intonazione, perfetti nella recitazione, “lavorati” da prove che immaginiamo estenuanti, ma “autentici”, palpabili, lontani da ogni robotizzazione: Maria de Medeiros, Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau. Da applausi.
Nessuna lentezza: Pessoa. Since I’ve been me corre veloce ma senza fretta, accumulando citazioni imprevedibili come giochi di carte, pesanti come riflessioni metafisiche, perché lo spettacolo di Wilson è un teatro che riflette su se stesso sfogliando uno smisurato album di aforismi. Sull’ illusione di vivere: “Che cos’è l’uomo se non un insetto cieco che sbatte contro una finestra chiusa”. Sulla verità dell’arte: “Solo il poeta riesce a lottare attraverso il vetro, verso la luce di fuori”. Sugli interrogativi cosmici: “Il Mondo non è fatto perché lo si pensi (pensare è un’infermità degli occhi), ma perché lo si guardi e si sia d’accordo con esso”. “Che cosa penso del mondo? Che ne so che cosa penso del mondo. Se mi ammalassi ci penserei”. ”Il mistero delle cose! Che cos’è un mistero? L’unico mistero è che ci sia chi pensi al mistero”.
Sulle emozioni che svaniscono: “Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancor più rapidamente, gli affetti violenti”. Sull’amore: “Amore è l’eterna innocenza. E l’unica innocenza, non pensare”. Sui segni dell’amore, con ironia molto autobiografica: “Tutte le lettere d’amore sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole. Anch’io ai miei tempi ho scritto lettere d’more, come le altre, ridicole. Le lettere d’amore, se c’è amore, devono essere ridicole, Ma dopotutto, solo coloro che non hanno mai scritto lettere d’amore sono ridicoli”.
Pessoa, Since I’ve been me è anche uno spettacolo pieno di suoni e di musica. La lettera (d’amore), letta e appallottolata, cade a terra col fragore di un macigno, invade la scena, la turba. Molte deflagrazioni elettroniche scandiscono come fulminei interludi lo svolgersi delle immagini e il rincorrersi delle parole, spesso, ma non sempre, annunciando il deflagrare di una pioggia sui pensieri tristi e aggrovigliati di Pessoa e dei suoi doppi. Incalzante è la foresta dei dubbi e delle negazioni: “Sono colui che non sono riuscito ad essere. Tutti siamo coloro che non abbiamo creduto di essere”.
Suoni, molti, ma nella scena dei sette tavoli con porta rossa, bellissima, capolavoro di sincretismo, Wilson si concede anche una citazione personale: qualcosa di ripetitivo che sembra un ricordo di Philip Glass (leggi: Einstein on the Beach, 1975).
Il finale è musica vera: un song, intonato e ballato dai sette in bianco, evoca una gioia scacciapensieri che allontana il peso del pessimismo di cui lo spettacolo è pervaso. Un canto “afro” cerca di far dimenticare “il sentimento della desolazione che mi invade e mi soggioga”. Già, perché Pessoa scrisse anche un Faust. Negava lo spirito ma lo evocava: “Non ho più anima. L’ho lasciata alla luce e al rumore. E non sento che un vuoto immenso là dov’era”. “Brucia in me la rivolta contro la causa della vita che mi fece quel che sono”.
Robert Wilson, che nelle sue pur mirabili regie d’opera deve confrontarsi con i vincoli di un teatro di “secondo grado” – attenzione, non di secondo livello -, nello spazio del teatro d’immagine si distende in libertà. E nella Parola di Fernando Pessoa, visionaria e senza confini, ha trovato riverberi di molti se non tutti i temi del suo mondo. Breve, concisa, allusiva, Pessoa. Since I’ve been me è una delle più profonde amplificazioni del teatro di Wilson.
PS: Pessoa, Since I’ve been me, in prima mondiale a Firenze, ora girerà l’Europa. Nel febbraio 2015 lo vedremo in Friuli Venezia Giulia e allo Stabile di Bolzano, che l’hanno coprodotto. A Milano no. Se qualcuno non ci ripensa.
Foto di copertina: Lucie Jansch.