È un successo la seconda edizione del festival Presente Indicativo, negli spazi del Piccolo Teatro. In questo articolo riflettiamo sui temi emersi nella rassegna: tra i tanti, la riflessione su realtà e rappresentazione e il rapporto con il melò
Che Milano avesse bisogno di un festival importante di teatro internazionale lo hanno dimostrato gli applausi deliranti a Rohtko, spettacolo monumentale del polacco Łukasz Twarkowski, visto la scorsa settimana al Teatro Strehler come culmine e chiusura della seconda edizione di Presente indicativo. Tre sere una più piena dell’altra, grazie al “passaparola”, come si dice in questi casi liquidando un po’ il lavoro di promozione, comunicazione, stampa di una macchina organizzativa che sa bene come si fa a riempire una sala.
Vero è che in città non si parlava d’altro lo scorso weekend. Poi non tutti gli appuntamenti della rassegna hanno avuto lo stesso esito, il che è inevitabile all’inizio di una nuova esperienza, quando ancora bisogna vincere resistenze – se non diffidenze – prima di lasciarsi guidare dagli itinerari che il direttore del Piccolo, Claudio Longhi, ha immaginato e speriamo continui a immaginare anche nei prossimi anni. L’impressione alla fine di due settimane di maratona è che il pubblico fosse meno disorientato rispetto alla prima edizione di due anni fa, stimolante ma troppo dispersiva: sera dopo sera le sale erano sempre più affollate e partecipi. E nonostante paesi, lingue e linguaggi molto distanti tra loro, ci si divertiva a trovare curiose affinità anche in autori che partono da presupposti divergenti.
Più che elencare gli spettacoli, proveremo a ragionare su alcuni dei tanti temi che sono emersi trasversalmente: la riflessione su realtà e finzione, la sovrapposizione dei piani temporali e il rapporto col melò.
Per il primo spunto, vale l’ovvia considerazione che il teatro non può non riflettere su se stesso. Parlare di spettacoli che riflettono sulla finzione è banale quanto dire che la danza riflette sul movimento e la musica sul suono: è la materia prima. Meno banale è capire in che modo il tema viene sviluppato quando diventa l’argomento stesso di uno spettacolo.
Per esempio in Rohtko (foto in evidenza) il problema si pone fin dal refuso volontario del titolo, in cui l’acca non è dove dovrebbe essere. Il testo di Anka Herbut parte da un famoso episodio del 2004, quando un falso dipinto di Mark Rothko venne venduto dalla prestigiosa Galleria Knoedler di New York a più di otto milioni di dollari. Eppure, per varie ragioni, si tratta di un falso capace di suscitare emozioni. E se si può stabilire con certezza l’autenticità di un’opera, certo non vale lo stesso per gli effetti che quest’opera suscita.
“Può un’opera falsa provocare emozioni vere?” si chiedono i personaggi della commedia, galleristi, collezionisti, artisti – tra cui ad esempio, per capire il livello di sovrapposizione dei piani, Rothko stesso e un attore che deve interpretare Rothko -, tutti a zonzo tra i tavoli di un ristorante cinese, per giunta raddoppiato perché raddoppiato è il tempo dell’azione – ma di questo si parlerà dopo. Attori e attrici quasi scompaiono in una scenografia labirintica, per ricomparire su un enorme schermo che sovrasta il palcoscenico, dove si segue il virtuosistico montaggio di ben quattro steadycam che riprendono tutti in tempo reale. Quindi ancora, dov’è il vero spettacolo? In scena o sullo schermo?
Anche La voluntad de creer dell’argentino Pablo Messiez scava nei sensi e significati della rappresentazione, che in sostanza – così si sostiene – è possibile solo con un atto di fede. Ispirato al dramma Ordet (il Verbo) del danese Kaj Munk, da cui un altro danese, Carl Theodor Dreyer, trasse il suo penultimo film, lo spettacolo è tutto un andare e venire tra vicenda e messinscena della vicenda. Si parla di un autoproclamato Messia, Juan, che si convince di poter riportare in vita la sorella morta di parto. Dal punto di vista del contenuto è tutto giusto, Messiez rielabora il testo di Munk facendo capire tra le righe che il grande tormento di un teatrante è e sarà sempre doversi accontentare della finzione, perché in fin dei conti sul palcoscenico non “accade” mai niente.
Questo a meno che non capiti il miracolo continuamente annunciato. Il problema dello spettacolo è formale, da una parte perché il tono, scherzoso a tutti i costi, stufa quasi subito – per non parlare delle continue e inutili interazioni con il pubblico -, dall’altra perché alla fine il miracolo non arriva, cosa che banalizza e depotenzia una delle più emozionanti scene della storia del cinema. In sintesi, mancava l’idea per farlo.
Con la sovrapposizione dei piani temporali si giocava invece nei tre spettacoli più importanti della rassegna: oltre a Rohtko, Saigon di Caroline Guiela Nguyen e The Confessions di Alexander Zeldin. A proposito del tempo in Rohtko, è come se solo la simultaneità fosse ammessa: non esiste linearità, che viene cancellata dalla riproducibilità tecnica mentre i dialoghi del passato e del presente si intrecciano sullo schermo. Il tempo non è mai personale o soggettivo, ma sospeso tra la meccanica della scena e la digitalizzazione dell’azione, il tutto annegato in un universo sonoro techno che non lascia spazio ai sentimenti o alla malinconia nemmeno nei passaggi più drammatici.
Al contrario è proprio la malinconia la chiave dei quattro capitoli di Saigon, che raccontano la decolonizzazione del Vietnam come questione sia storica sia personale. Si salta avanti e indietro tra il 1956, anno in cui i francesi lasciano l’Indocina, e il 1996, quando il Vietnam riapre le porte ai suoi connazionali esiliati, i Viet Kieu. Nel lungo spettacolo lo spaesamento non è solo temporale ma spaziale: due città, Saigon e Parigi, ma in scena sempre lo stesso ristorante iperrealistico, con cucina funzionante in cui regna l’instancabile Marie Antoinette, e si sbircia nel quotidiano dei protagonisti dove attesa e memoria si confondono.
Situazioni qualsiasi che paiono semplici raccordi diventano scene clou da un momento all’altro, e tutto è calibrato ed emozionante senza nemmeno un sospetto di ricatto emotivo. I personaggi sembrano anime alla deriva in cerca, se non di pace, almeno di conforto, mentre aspettano gli invitati che non arrivano a un matrimonio, cercano un po’ di affetto e compagnia, negano a se stessi e agli altri le verità più tragiche, mentre ascoltano una canzone melensa al karaoke.
Diverso ancora il trattamento temporale in The Confessions, che racconta la storia, ordinaria e commovente, della madre di Alexander Zeldin, che il regista ha rielaborato dopo alcune sessioni di interviste, affidando la parte a due attrici di età diverse. L’anziana Alice lo dichiara subito al pubblico, appena entra in scena: “I’m not interesting”. E invece gli episodi della sua vita hanno una forza speciale, diventano spiragli per interpretare un’intera vicenda generazionale di affermazione femminile, ricerca di indipendenza, liberazione dalla prevaricazione, senza proclami e senza retorica.
Ogni tanto l’anziana Alice ricompare in scena, fa da mediatrice, spiega, chiarisce, ci permette di frugare meglio tra i suoi ricordi e i suoi traumi, rielaborati in presa diretta come in un libro di Annie Ernaux. Memorabile la scena in cui la vecchia Alice chiede al suo aggressore di spogliarsi per fare un bagno insieme a lei. Così passato e presente diventano indistinguibili sulla scena come in una pagina di Proust, e si sarebbe rimasti ancora in sala per sentire altri dettagli di questa storia.
E siamo al melò quindi, categoria in cui Saigon e The Confessions rientrano perfettamente: vicende familiari da romanzo, protagoniste-eroine che riprendono il controllo della propria vita, flashback continui su un passato che non si riesce a dimenticare, e così via melodrammatizzando. Ma in entrambi i casi si tratta di un melò delicato, che non esibisce i tipici “effetti senza cause” ma sembra al contrario nasconderli nel silenzio del quotidiano, del rimosso, del ricordo, al punto che alla commozione si arriva sempre senza accorgersene.
In diretta opposizione invece l’anti-melò di Patrice Chéreau, di cui è andato in scena La Douleur, monologo che il grande regista francese aveva costruito nel 2008 con Dominique Blanc a partire dal romanzo autobiografico di Marguerite Duras. Ancora un’attesa, quella della protagonista che spera di veder tornare il marito dal campo di concentramento. Il dolore è la cosa più importante della sua vita, confessa sul palcoscenico spoglio dove è diventata quasi un oggetto di scena. La recitazione di Blanc, asciutta e angosciante, espone una routine del dolore, precisa, meticolosa, quasi priva di emozione. Poi il ritorno inatteso del marito da Dachau, ridotto a 35 kg, la lotta per la sopravvivenza, il corpo che finalmente reagisce e la forza catartica del “j’ai faim” finale con cui si dichiara il ritorno alla vita. Eccolo il miracolo che non arrivava.
Foto © Artūrs Pavlovs