In Teatro

Giorgina Pi porta in scena con fedeltà l’ultimo lavoro di Bernard Marie Koltès, e portando in scena un noto serial killer italiano, indaga la natura grottesca e ambigua dell’essere umano. All’Elfo fino a domenica 17.

Nel tempo dei podcast e del true crime assurto a mito collettivo, si potrebbe chiedersi se non sia più nota oggi che al 1990 in cui Koltes, niente meno, la portò in scena in teatro, la vicenda di Roberto Zucco (o meglio, Succo, come vuole l’anagrafe piuttosto che l’autocostruzione identitaria che lui stesso racconterà). Il diciannovenne nato a Venezia (“non pensavo che a Venezia si potesse anche nascere, non soltanto andare a morire”, negli anni in cui il grande drammaturgo dei derelitti ne fa il suo ultimo, forse più caro, protagonista, è già un mito, l’epitome di una cronaca ancora molto vicina, che lungo tutti gli anni Ottanta traccia il proverbiale filo di sangue che dalla provincia veneta travalica il confine facendone, in Francia, un serial killer che pare uscito direttamente da un fumetto o da un film.

Raccontandolo quasi in presa diretta, Koltes adatta quanto gli serve lo sviluppo narrativo, ma fotografa con esattezza i motivi per il quale “Zucco” è passato anche alla storia come “il cherubino nero”. Anche il suo Roberto Succo è un ragazzo apparentemente fragile, timido, alla cui crudeltà non si crederebbe fino a che lui stesso non decide di metterla in scena.
Nella versione portata sul palcoscenico del Teatro Elfo Puccini con la regia di Giorgina Pi un impeccabile Valentino Mannias dà corpo a Succo ragazzino – quando uccide i suoi genitori ha compiuto 19 da una settimana, quando evade dall’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia ne ha da un mese 24 – capriccioso e violento, come lo sono i bambini, non fosse per il fatto che le conseguenze delle esplosioni d’ira di un giovane uomo ambiguo e puerile producono morte anche in chi, come sua madre, nella lettura di Koltes sconta semplicemente il suo amore materno che segna solo sul piano intellettuale la differenza tra giusto e sbagliato ma non sa, non può, rinnegare un figlio.


Oggi come ieri, a leggere la fascinazione per il true crime è la volontà (o l’illusione) di svelare il segreto dell’animo umano, tracciare una rassicurante distanza tra ciò che è normale e ciò che è patologico. Koltes mette sul piatto questa spiegazione alle prime battute, nelle parole di due secondini, per poi svolgere la narrazione della vicenda – con nitida linearità – con la dichiarata intenzione di sfumare quel confine, moltiplicando i carnefici e pervertendo il confine con le vittime, fino a trasformarle in maschere quasi grottesche che si affrontano – mentre un giovane assassino punta la pistola a una donna che accetta di morire – in totale spregio di tutto quel che accade, con l’unico obiettivo di sbranarsi a vicenda. La società alimenta i suoi mostri e fa dei serial killer capri espiatori ed eroi, in ogni caso simboli di quel che produce. Così fa la sua forma in minore, cioè la famiglia, che nella sua retorica ossessiva e spietata di protezione consegna al suo destino un’altra ragazzina, colpevole di aver desiderato di scegliere per sè, credendo a un giovane uomo che le racconta la favola dell’agente segreto, e che – nella cronaca – sarà l’unica che il ragazzo dirà di avere amato davvero.

La parabola vicenda di Succo, riassunta e rinarrata ad uso di una scena che Giorgina Pi sceglie con una vocazione tutta cinematografica, tra tagli di luci e penombre invadenti, è per Koltes l’appoggio di un’indagine sull’umano che ha la statura dell’epica e la rovescia nella calata strascicata che facilmete si associa a un marginale venuto da est.

La statura del lavoro, in ogni caso dimostra un testo raffinato, una lingua presa in prestito più dalla parola scritta che dalla scena, dove l’analisi filosofica prende il posto dell’enfasi con cui si è soliti conoscere queste vicende, lasciando però spazio a figure poetiche come il clochard di Giancarlo Judica con cui Zucco condivide una notte solitaria. A spiccare, al di là di questo ragazzino spietato costruito insieme come eroe e colpevole assoluto, sono i rifiutati della società che lo ha costruito come tale. Tutte le figure abituate a muoversi, agli angoli delle strade o dentro i bordelli, sulla soglia delle proprie contraddizioni, o – dentro le case – nell’angoscia di un male ancor più senza appello benchè meno visibile. Tutti – la messa in scena lo restituisce plasticamente – si affacciano su una soglia in cui, da un lato si inventano, serrate, le parole di una storia, dall’altra si consuma nel silenzio la violenza di tutti i giorni, fatta di uomini stolidamente crudeli e donne disperate, a cui non resta che il rancore, l’indifferenza o l’ipocrisia.

Una pièce che mantiene tutte le aspettative in termini di impatto scenico (tra attrezzi di scena e uso degli spazi, a tratti strizza l’occhio a quello che in teatro si potrebbe chiamare kolossal, così come per il numero degli interpreti: Andrea Argentieri, Flavia Bakiu, Monica Demuru, Gaia Insenga, Dimitrios Papavasilìu, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Kevin Manuel Rubino, Alexia Sarantopoulou. E invece sorprende chi – sulla scorta anche di alcuni dei precedenti lavori di Bluemotion – si aspettava forse una maggior astrazione. A prevalere, però, pare essere stata soprattutto una volontà di fedeltà a suo modo rigorosa del dettato kotesiano, e alla sua volontà di illuminare – nella sua asciutta e spietata verità, spogliata di metafore o esercizi di stile visionari – l’essere umano, soprattutto quando distrugge. Come un bambino, che – sognando un volo che riscrive la morte senza epica che il vero Succo si inflisse al termine della propria parabola e del decennio – schiacci un essere più piccolo con la sottile perfidia di chi non l’ha visto, uccidendolo come per incoscienza.

Foto: Greta De Lazzaris

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