Sette libri dal catalogo Keller, tutti firmati da donne, con protagoniste femminili impreviste, portatrici di una sapienza antica, cariche di un fascino profondo e mai retorico. Li firmano Alina Bronsky, Sylvie Schenk, Sophie von Llewyn, Claudia Schreiber e Katerina Tučková, e sono tutti ambientati in quel mondo che è stato oscurato dalla cortina di ferro, oggi scosso dall’elettricità brutale di quello che sta accadendo. Libri densi, belli, vitali. Antidoti a nuovi, possibili muri.
Premessa. Putin non è la Russia. Lo dice Aleksej Anatolevič Navalny, avvocato, creatore di una Fondazione che raccoglie da anni prove contro l’apparato corrotto del Cremlino, ventisette per cento di voti nelle elezioni 2013 per il sindaco di Mosca, fermato dall’Alta Corte russa nel 2016 come candidato alle presidenziali del 2018, avvelenato nel 2020 e definitivamente sistemato per 15 anni in carcere, nel 2021. Lo dicono i più di settemila russi, per ora, arrestati per aver manifestato contro la guerra, fra cui cinque bambini di cinque e sette anni, e una ottuagenaria che ha conosciuto l’invasione tedesca. Lo dicono studiosi e ricercatori dell’Accademia russa delle scienze che hanno sottoscritto una petizione contro la guerra. Lo dicono i dirigenti del teatro Bol’šoj di Mosca che hanno firmato una lettera pacifista esponendosi a rischi enormi per sé e le loro famiglie. Lo dice perfino il numero uno del tennis mondiale, Medvedev, che si è dissociato dalla guerra. E noi stiamo qui a scannarci tra buoni e cattivi, illuminati e oscurantisti, per un direttore d’orchestra che di Putin ha controfirmato tutto, che ha sostenuto come giusta l’occupazione della Crimea e delle regioni sud-est dell’Ucraina, che ha portato la sua orchestra del Mariinskij a Bosra per celebrare il condottiero vittorioso in Siria, dove già si era distinto in operazioni militari da peacekeeping.
I fatti. La sera di mercoledì 23 febbraio, lo stesso musicista russo, non grande, immenso, dirige alla Scala una Dama di picche di Čajkovskij da brivido. Solo la scena della morte della Contessa, in una polvere impalpabile di sussurri e colori d’orchestra, basterebbe ad arricchire lo scrigno in cui conserviamo non forse i migliori anni, ma almeno i migliori pezzi della nostra vita. La notte seguente, il dittatore con cui l’artista condivide vicinanza e amicizia, invade un Paese fratello protestando motivi identici, fin negli aggettivi e nelle virgole, con cui un dittatore tedesco aveva “annesso” paesi confinanti circa ottant’anni prima. Replica ucraina delle stesse invasioni “invocate” dagli ungheresi nel 1956 e dai cecoslovacchi nel 1968.
A chi ama la bellezza e la musica, come quella di Pëtr Il’ič Čajkovskij – anch’egli “pacificamente “invitato a uccidersi dall’omologo ottocentesco del dittatore di oggi -, viene un tuffo al cuore. Ingenuo, osa chiedersi se il sublime direttore e l’amico del tiranno siano la stessa persona e condividano lo stesso pensiero sulla vita, cioè sulla morte (degli altri).
Raccogliendo quei dubbi, il teatro chiede al sublime direttore di sapere se la guerra sia per lui una pratica cui mettere un’altra firma per affrontare le questioni tra i popoli. Nella lettera – leggetela, non inventatela – nemmeno è precisato se si tratti di guerra offensiva o difensiva, che farebbe anche una gran bella differenza perfino per la Chiesa e le chiese (non tutte, come si vede anche oggi), ma semplicemente “la guerra”. Il sublime direttore naturalmente non risponde e immediatamente un altro mondo di anime diversamente candide trasforma il venerato maestro in vittima.
I soldati della potenza militare “sorella” cominciano a devastare il più piccolo, ma non tanto piccolo, paese fratello, non accolti come benefattori. Una grande, amatissima cantante russa – e non lo dico con ironia, l’abbracciai alla Scala quando debuttò da noi – pronta a tornare sullo stesso palcoscenico in Adriana Lecouvreur di Cilea, posta di slancio un moto di dolore contro la guerra, forse mossa dal suo cuore di madre. Poi, di certo confusa da un clima distorto e ostile dell’opinione pubblica – un po’ di contegno: è solo scoppiata una guerra a tre passi da casa dopo ottant’anni, scatenata da una potenza nucleare che avverte elegantemente di non immischiarsi in una faccenda privata da quaranta milioni di persone e sessanta chilometri di carri armati, se no saranno guai – la grande cantante s’impenna, si corregge e prende le difese della categoria sostenendo che sì, la guerra è cattiva, ma questa forse non tanto, e comunque agli artisti non si può chiedere di “rinnegare la patria”.
Alt. Qui la carissima grande cantante, e molti con lei, deragliano. Nessuno sano di mente chiede agli artisti (russi) di rinnegare la patria. Se allunghi le mani contro la guerra scatenata da un dittatore, la patria non la rinneghi, anzi la rispetti, la ami, la santifichi. Come stanno facendo, a loro rischio e pericolo, tanti russi di ogni profilo e provenienza; e molti di più sarebbero se le televisioni di regime non nascondessero i filmati delle distruzioni e delle morti, se una legge dello Stato nuova di zecca non vietasse ai mezzi di comunicazione di scrivere o pronunciare le parole guerra, feriti e morti, pena naturalmente la reclusione fino a 15 anni (quindici!).
Anche noi, nel nostro piccolo, sappiamo che cos’è una dittatura, ma quando nell’orgoglioso ventennio i nonni e i genitori si pronunciavano o agivano contro la guerra nel cui buco nero M ci aveva scaraventato, non rinnegavano la patria, la piangevano, cercavano di salvarla. Solo i fascisti e non pensanti li davano per traditori.
Dopo il 24 febbraio è successo qualcos’altro di sconsiderato: i russi demonizzati in quanto russi. Una grande università italiana è arrivata al punto di sospendere un corso su Dostoevskij (ha fatto marcia indietro, ma, insomma, è successo).
E allora sì tocca alzare una controbarriera. Tutti sanno benissimo che la Russia “giusta” sta nei Fratelli Karamazov e nell’Idiota, nel Puškin e nel Čaikovskij della Dama di picche. Ma sospendere anche sconclusionatamente i rapporti con l’odierna Russia “di Putin” non significa cancellare la cultura della Madre Russia. Dostoevskij non morirà mai e non ha bisogno di essere difeso da nessuno. Nemmeno Puškin. Nemmeno Čaikovskij. Molti russi intelligenti e avvertiti si sono già rassegnati ad accettare questo embargo perché capiscono che perfino una sospensione, ripeto non cancellazione, dei rapporti investe la Russia di Putin, non “la Russia”.
Guardiamo bene: questa diffusa e ovviamente esecrabile reazione, fatta di approssimazione istintiva, indistinzione, da chi ha origine? Non da chi la applica, ma dalla logica (?) di ogni dittatore, che della confusione tra popolo, cultura e regime trae ragione per agire “in nome di” un popolo e una cultura che non gli fanno né caldo né freddo, che anzi allegramente considera palle al piede. Per provocazione e paradosso, dovremmo perfino consolarci di queste reazioni scomposte, perché nascono dall’indignazione, e l’indignazione ci salva dal menefreghismo su cui tutti i violenti – piccole gang, stupratori, assassini di mogli e amanti, dittatori – contano per fare quel che fanno. (Controllate i libri di storia, grande maestra senza allievi: anche il grande stratega Churchill si fregava le mani quando Hitler invadeva la Polonia. Solo quando la Luftwaffe cominciò ad amare i cieli sopra la Manica, diventò l’eroe del regno Unito e di una Europa anestetizzata dall’egoismo nel segno del: lasciamogli mangiare qualcosa, poi si calma. Infatti).
Una cosa dobbiamo temere su tutto: l’indifferenza. E purtroppo, anche gli esecrabili anatemi contro non Dostoevskij, Puškin o Čaikovskij, ma contro coloro che li dovrebbero onorare, ottiene l’effetto di fare terra bruciata attorno a un delinquente che non se l’aspettava.
L’onore che viene dall’Est. Detto questo, anch’io, colpevole di essere stato toccato da un silenzioso dolore mentre mi emozionavo alla Dama di picche della Scala, so di dover contribuire alla rimozione dei nuovi muri. Perciò vi offro esempi di una Russia e di un mondo slavo (di oggi) da amare senza riserve.
Li trovate nei libri di un piccolo editore, “basato” (come inglesizzano gli analfabeti d’Italia, avrebbe scritto Paolo Isotta) in una città del Trentino quasi ai confini dell’Alto Adige. Libri che portano alla luce la materia pulsante di luoghi un tempo oscurati dalla cortina di ferro. Libri che ci consegnano i segreti e le intimità di una cultura slava non accademica, non retorica, ma popolare, contadina, agreste e montana di paesi ex Urss, oggi “liberi” ma che “dormono preoccupati” come si diceva in caserma quando c’era la leva. E soprattutto molti, forse i più belli, sono scritti da donne, con donne protagoniste, affascinanti non per la taglia che indossano e il rimmel che le orna, ma perché portatrici di una sapienza antica, per di più venata di magia. In questo crescendo di idiozie testosteroniche, abbiamo un dannato bisogno di virtù femminili. In questa immensa follia, solo le donne potranno forse salvarci.
Di Alina Bronsky, nata nel 1978 a Ekaterinburg, russa, ora berlinese, segnalo due libri toccanti: L’ultimo amore di Baba Dunja e La treccia della nonna, uscito da poco.
Baba Dunja è una donna non più giovane che torna a casa in un villaggio ucraino vicino a Černobyl per cercare di agguantare ancora un po’ di vita con sereno coraggio, riscoprendo piccole cose familiari, tentando relazioni “normali” con i pochi abitanti del villaggio contaminato, vivendo da lontano un rapporto difficile con la figlia, chirurgo affermato in Germania, finché l’arrivo di un uomo con la piccola figlia sconvolge tutto. Prosa incisiva; dialoghi secchi e nervosi; fili che si intrecciano, piccole e grandi sorprese.
La Nonna del secondo libro è una ex ballerina russa che con il muto e sfuggente marito “orientale” (sic), vive con orgoglio e pregiudizio il suo esilio in Germania dopo la dissoluzione dell’Urss. Storia di una donna che pare dura come la quercia, che strapazza il silenzioso marito (mai una battuta sua) e il piccolo nipote (l’unico dialogante), forte, arguta, ma infine generosa come nessuna donna immagineresti capace quando si scopre tradita.
Due libri anche di Sylvie Schenk, nata a Chambery nel 1944, francese che vive in Germania e scrive in tedesco perché la sua fiducia nella vita l’ha portata a scavalcare un’altra cortina di ferro, sposando un figlio dell’ex invasore. Diverse e sorprendenti le conseguenze, come donna e come scrittrice.
Il primo è Veloce la vita, libro che, come quelli di Alina Bronsky, cattura senza farvi perdere tempo. Poetico e sintetico nel racchiudere in 170 pagine il volgere di una vita, frugando nel rapporto fra dominati e dominanti, difficile da elaborare anche quando la guerra è finita, pure per una generazione che il conflitto non l’ha vissuto, perché la storia non lascia spazi vuoti e qualunque idillio è costretto a fare i conti con ciò che non vorresti sapere.
Il secondo libro di Sylvie Schenk, Una famiglia come tante, appena uscito, è la continuazione, anzi la precisazione ideale di Veloce la vita. Diverse generazioni dei francesi Cardin, quattro nipoti, tre sorelle e un fratello, si ritrovano a Lione, al funerale degli zii. Un sorprendente intrigo sull’eredità scoperchia intrecci inconfessati di una famiglia davvero come tante, ma non per questo quieta e povera di sussulti. I contrasti di un microcosmo familiare, nel cuore della vecchia Europa, sono un’occasione per riflettere sul nostro essere cittadini di una realtà cui non possiamo sfuggire, nemmeno se vogliamo. Soprattutto oggi.
L’ambiente di Bottigliette di Sophie von Llewyn, scrittrice nata vicino al delta del Danubio, è la Romania mortificata da Ceaucescu. Alina e Liviu, insegnanti, cercano di vivere la loro vita finché la fuga del fratello di Liviu in occidente li mette sotto l’occhio e le mani della Securitate. Anche qui una donna, la zia ricca che vive nelle grazie dell’Apparato, imprime una deviazione alla apparentemente ineluttabile corsa verso il precipizio non perché potente, ma perché depositaria di antiche saggezze.
La felicità di Emma di Claudia Schreiber è ancora un romanzo rurale e magico ambientato in una Germania agreste e boschiva dell’Est riassorbito dalla riunificazione. Emma, giovane contadina che alleva maiali, ha le braccia forti e la testa dura di una solitaria che nemmeno immagina di essere bella. La fuga di un uomo “di città”, ricco di un tesoro nascosto ma condannato da un male incurabile, le attraversa la vita. Scopre il suo corpo e sé stessa, ma la vera felicità, è destino che Emma la consumi migliaia di chilometri lontano dalla casa con porcile del Vecchio Mondo in cui credeva concluso il mondo. Crudo e poetico.
Ultimo e non ultimo, il libro più denso e consistente (415 pagine): L’eredità delle dee, di Kateřina Tučková. Combinazione bellissima di ricerca etnica e storiografica, di documentazione e “fiction”, il libro racconta i misteri delle donne che, nel cerchio magico di alcuni villaggi dei Carpazi bianchi, tra Repubblica Ceca e Slovacchia, a due passi dall’Ucraina, negli anni tra fine Ottocento e primi Novecento si tramanda fossero dotate di quel che anche nelle nostre culture contadine si chiamava “il segno”: potere di guarire con l’imposizione delle mani e la somministrazione di infusi, di predire il futuro, di “fermare” la natura. La tesi di laurea di Dora, studentessa nella da poco libera repubblica ceca, incrocerà perfino i resoconti di una indagine dei nazisti promossa personalmente dal Reichführer, notoriamente malato di superstizione, e andrà a confondersi con il destino di scoprirsi lei stessa ultima dea colpita da un maleficio.
Tutti libri che vi resteranno dentro, ma che hanno molti compagni, anzi compagne, nel catalogo Keller. Perché, ripeto, solo nella saggezza delle donne possiamo sperare.