Una mappa della storia dell’arte fatta strappando al silenzio i nomi delle artiste che – nonostante tutto – sono riuscite a lasciare traccia di sé e del proprio talento. E un inventario di voci a quattro mani, immaginando ciò che protagoniste di romanzi, storie, miti hanno da dire (e non hanno potuto farlo) ai rispettivi comprimari. Due libri che parlano di donne, ma che parlano a tutti: “Vite di artisti eccellenti” di Costantino D’Orazio (Laterza) e “Il giogo dei ruoli” di Saveria Chemotti e Mario Coglitore (Il Poligrafo).
I nomi e le voci, per prima cosa.
Così, nella medesima direzione, lavorano il saggio Vite di artiste eccellenti firmato da Costantino D’Orazio per Laterza e Il giogo dei ruoli, primo volume della collana Destini incrociati pubblicata da Il Poligrafo e diretta da Saveria Chemotti (che è anche coautrice, insieme a Mario Coglitore, di questa raccolta di racconti in forma di diciotto dittici illustri).
Poiché nominare altro non è che recuperare alla luce dell’inchiostro, trascinare oltre il silenzio fino alla memoria scritta.
E sfondare l’assenza della testimonianza, tirare fuori a forza di riscrittura il non-detto, l’opinione negata, la ribellione implicita, i toni, i pensieri non permessi, è in fondo anche un modo di rimettere al mondo un immaginario proprio attraverso la voce che (non) ha avuto.
In entrambi i casi, sono i confini quelli che ne risultano infine ridisegnati: da una parte una mappa di artiste, una genealogia di volontà creatrici al femminile, per un’altra storia dell’arte, come afferma la quarta di copertina (o, magari, meglio, per una storia dell’arte meno monodirezionale, un po’ più complessiva); dall’altra una sorta di enciclopedia giocosa, un coro d’opera (anzi: delle opere) composto da soliste ben decise a riprendersi una per una la scena.
Che l’interesse della letteratura si sia volto più massicciamente, negli ultimi tempi, a ristudiare e a riscoprire con cognizione e contesto protagoniste rimaste aggrappate sporadicamente alla storia in una forma fin qui pregiudizievole e mutilata, è un fatto (e di questo diverso sguardo se ne è scritto anche in queste pagine, come è il caso di Valeria Palumbo, per Virginia Oldoini contessa di Castiglione, qui; o ancora di Ciccilla, al secolo Maria Oliverio, indomita protagonista di Italiana di Giuseppe Catozzella, di cui si parla, tra le altre cose, qui).
Così, che dalla monografia si prenda anche a camminare all’indietro in modo complessivo, riguardando l’insieme di un panorama che ora si rivela tutt’altro che chiuso, è un movimento che è, in questi due libri, un’intenzione dichiarata, più che una concessione estemporanea: una risposta, insomma, rispetto a un vuoto sul cui terreno inoltrarsi è divenuto (tale parrebbe) necessità attuale.
Se ne ricavano nomi, appunto, che riemergono insieme a storie cancellate o seppellite nei depositi dei musei; e voci – che decidono di dire la loro anche a dispetto di chi le ha originariamente inventate.
Costantino D’Orazio, Vite di artiste eccellenti (Laterza)
Pioniere, silenziose, coraggiose, autorevoli, rivoluzionarie, libere, visionarie, compagne, contemporanee. In nove sezioni, uno slittamento di prospettiva. L’intenzione di guardare lì dove la storia dell’arte ha sistematicamente ignorato, espunto, non considerato, o tiepidamente tollerato.
Per ogni età, circoscritta dal taglio contenuto nell’aggettivo che le definisce in ciascun capitolo, Costantino D’Orazio restituisce tridimensionalità a una geografia di artiste secondo un prima e un poi, non senza un collegamento con il contesto in cui vissero.
Il modello si rifà a quello, illustre e declinato tutto al maschile delle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari, che nel suo fortunato trattato definì un canone diventato imprescindibile (e nel quale sopravvive, tra tanti, una unica biografia dedicata ad una donna, la bolognese Properzia de’ Rossi).
Ritardo ed eccezionalità connotano ancora, ben spiega D’Orazio, la percezione che le donne scontano quando si tratta di riconoscimento ed applicazione del proprio ingegno (al punto che, all’alba del XXI secolo, “fa notizia” l’insediamento della prima rettrice in una Università italiana). E questo, nel campo dell’arte, è una costante che, riletta in forma diacronica, evidenzia quanto le scelte operate da uomini siano state monoliticamente escludenti: vietati i concorsi per le opere pubbliche, ammesse alla frequenza di corsi di studio artistico soltanto dal XVII secolo, interdette dalle riunioni decisive in termini di committenza:
Impossibile per loro affrontare i grandi temi della pittura di storia, impensabile cimentarsi in tele di grandi dimensioni. Generato da un pregiudizio morale a prima vista innocuo, il divieto di frequentare lezioni di disegno dal vero di corpi di uomini senza veli è la causa principale dell’assenza di grandi opere pubbliche prodotte da artiste donne.
In questa prospettiva, che alcune (come Plautilla Nelli, Sofonisba Anguissola, Elisabetta Sirani e Artemisia Gentileschi) ce l’abbiano fatta ad affermare il proprio talento, e che se ne possa serbare memoria, pare cosa ancora più significativa.
Quanto al motivo, di questo sabotaggio sistematico, Costantino D’Orazio non ha dubbi: una questione di paura delle donne, radicata fin dai Greci antichi.
Palma d’oro della misoginia va a Semonide di Amorgo: si risale al VII secolo a.C. per avere una prima testimonianza scritta di quel sentimento che dall’acredine vira verso il disprezzo, e convola in una tirata aggressiva che resterà proverbiale (e pure Giacomo Leopardi tradurrà quel suo Giambo contro le donne).
Va da sé che, pur abbracciate alle Muse, sopravvivano soltanto una manciata di nomi sparuti, privi di storia, poco più che tracce: Irene figlia Cratino, Calipso (forse nemmeno vissuta), Timarete, Aristarete figlia di Nearkos, Iaia di Cizico. Pittrici figlie di pittori, responsabili di opere realizzate in contesti ufficiali e noti. Appena un bagliore, naufragato insieme alla quasi totalità della pittura greca e latina, e recintato, con la fine dell’età classica, dentro ai chiostri.
Le artiste donne diventano così silenziose – e tali le definisce il secondo capitolo, che indaga la realtà artistica femminile tra il VI e il XVI secolo, immancabilmente legata alla vita dei conventi.
E illuminante è Chiara Frugoni:
Quando abbiamo tra le mani un codice, magari miniato, quasi automaticamente pensiamo che a compilarlo e dipingerlo sia stata la mano di un uomo. E invece dovremmo fare spazio ad un’altra immagine: quella di generazioni e generazioni di monache dimenticate, intente a copiare, collazionare, miniare e comporre.
Un invito a scavalcare un pregiudizio riguardo al nostro immaginario sul mondo medievale che scarta da una realtà decisamente più ricca e articolata di quanto noi non riusciamo a figurarci. Di una certa autonomia, dunque, appaiono dotate le artiste che proprio al riparo dei chiostri poterono dotarsi dei saperi necessari per nutrire il proprio talento.
Sono le arti minori (la tessitura, il ricamo, l’arazzo) l’incubatore del gusto e della loro diversa visione: orditi, tessuti, pieghe. Un filo che lega miniature, gemme scolpite, paramenti e ritratti, enciclopedie botaniche, e arriva fino ai ricami d’oro dipinti da Fede Galizia (con tale sapiente dettaglio da far sospettare si tratti di un costume da lei stessa realizzato), al raso del ritratto di Maria Antonietta realizzato da Élisabeth Vigée-Le Brun che segna uno strappo dall’etichetta talmente rivoluzionario da risultare scandaloso, fino alla coraggiosa forza creatrice di Maria Lai, che lega con ventisette chilometri di nastro uomini e natura, tradizioni e presente, in un gioioso monumento ai vivi.
Saveria Chemotti – Mario Coglitore, Il giogo dei ruoli (Il Poligrafo)
Diseguale è la memoria che serbiamo delle vite. Diseguale perché, a raccontare delle coppie – vere o immaginifiche che siano – una è la voce, ed è quasi sempre maschile. Diseguale perché il contesto al quale le storie sopravvivono emerge dal naufragio di un tempo in cui la percezione è pur sempre figlia di ruoli e partizioni tradizionali – dunque, in definitiva, di un equivoco.
E chi, se non la letteratura, può infine concedersi uno spostamento di prospettiva tale da aprire uno spiraglio di sovvertimento, da permettere alle voci negate, o rimosse, o soverchiate, o riottose di ri-scriversi, scartando di lato rispetto alla conoscenza presunta che abbiamo di loro (e perfino alla loro conoscibilità)?
In questo terreno, con gioco e perizia, si addentra Destini Incrociati, la nuova collana che Saveria Chemotti, scrittrice, saggista e critica letteraria, inaugura per la casa editrice Il Poligrafo di Padova, con l’intenzione di ribaltare squilibri che il tempo e l’abitudine hanno dato per equilibrati.
Il primo titolo, Il giogo dei ruoli, a firma della stessa Chemotti, in partitura doppia con Mario Coglitore, mette in scena (con richiamo operistico esplicito) diciotto dittici d’amore e di negoziato, di idillio e di sopportazione, di ribellione e di malizia.
Diviso in tre tempi, scandito da duetti bipartiti, il testo appare come una schermaglia che, attraversando letteratura mito e storia, mescola a coppie personaggi di carta e nomi che sulla carta hanno creato, affidando il ritmo dei racconti alla leggerezza di una cornice giocosa.
Così tra Dulcinea e Don Chisciotte c’è un canto a due voci per mulini a vento, tra Rossana e Cyrano De Bergerac una ballata per sogni e ombre, e se Caterina Capretta e Giacomo Casanova si affrontano a distanza in un rondò narcisista, Alphonsine Plessis e Alexandre Dumas figlio appaiono impegnati in un valzer per vite appese.
In quell’Arlecchino e la compagna di Pablo Picasso che campeggia sulla copertina c’è una promessa implicita: se alla lei del quadro non è dato neppure il nome, è pur vero che in camera, dritto verso di noi, c’è proprio il suo, di sguardo. E mentre Arlecchino, di profilo, pare abbottonato sui suoi pensieri, è lei che decide di piantarci addosso i suoi occhi, di parlarci, di inseguirci.
Così fanno le donne de Il giogo dei ruoli: entrano da sole nello spazio dell’occhio di bue del palcoscenico, non aspettano di essere invitate, hanno da dire perché aspettano da tempo:
Quando sei stata designata solennemente dagli Dei per interpretare un ruolo tra i mortali, non puoi lamentarti, protestare, opporti al tuo destino. Devi rassegnarti, accettare l’investitura e mostrarti perfino orgogliosa della tua missione, per penosa che sia.
Lo sanno bene le donne che, tra qualche migliaia di anni, si troveranno a lottare per cancellare le parole di moglie madre esemplare tatuate sul loro ventre e per scampare alla clausura della loro essenza nella tradizione patriarcale.
(Chemotti, La tela di Penelope)
Nato a distanza durante il lockdown come gioco epistolare (la risposta di Chemotti a un intervento di Coglitore, artificiere e innesco del meccanismo), il corpo dei racconti a distanza è cresciuto, fino a raggiungere una architettura di riscritture che affronta il rapporto tra maschile e femminile, ragionando su competizione e patriarcato, allori postumi e miserie in vita, realtà e inevitabili rappresentazioni.
Come ne escono, i protagonisti di questa partitura narrativa a quattro mani (che non disdegna anche il cambio d’ordine, affidando alla fine di ogni movimento un racconto a voci invertite)?
Il più ammaccato è forse il genio assoluto, e non per motivo di finzione. Di sua penna, le condizioni dettate dall’Einstein privato alla prima moglie, Mileva Marič, per consentirle di rimanergli accanto salvando le apparenze del matrimonio sono di una perfidia agghiacciante – tanto più considerando la parte che Marič ebbe nella formazione, nello studio, nella vita del fisico.
Senza la polvere magica di Trilli lui non sarebbe nessuno, crescerebbe come tutti e diventerebbe un uomo grande, grosso e grasso (Chemotti: Il coccodrillo che ne sa?).