Cavalleria Rusticana e Pagliacci vengono rappresentate insieme. Ma come spiega il regista, che ne ha curato la messa in scena alla Scala, sono intimamente diverse
A quattro anni dal suo debutto alla Scala Mario Martone è tornato, il 12 giugno, sul luogo del delitto. Anzi dei tanti delitti del dittico verista – Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo –, che in questa sua regia vengono commessi persino in mezzo alla platea del teatro. È l’occasione per discutere insieme di due delle sue produzioni più amate.
Non si può evitare di partire dalla differenza stilistica tra i due spettacoli, tanto è evidente: cosa le ha suggerito questo contrasto?
Mi pare giusto far capire che si tratta di due opere diverse, evitando di trovare agganci a ogni costo per forzarle a un’uniformità che proprio non c’è. Siamo abituati da sempre a vedere Cavalleria e Pagliacci accoppiate tra loro, ma questo non significa che non siano autonome. Mascagni e Leoncavallo esigono rispetto: ognuno dei due ha creato un gioiello con una sua dignità, le due opere non valgono solo in quanto coppia.
Quindi due opere e due verismi?
Diciamo che per ognuna ho trovato una diversa interpretazione. Per Cavalleria sono tornato indietro nel tempo. La ritualità della messa di Pasqua rappresentata e la sacralità del coro mi hanno fatto scoprire nell’opera la dimensione tragica dei greci. Da qui è nata l’idea di Santuzza non come vittima o come donna da compiangere, ma come ribelle che disobbedisce al maschilismo omertoso che la circonda. Tanto che, morto Turiddu, Santuzza resta in scena sfidando con lo sguardo gli uomini del villaggio. Per Pagliacci invece c’è stato un salto nel futuro, verso una forma di emarginazione più attuale dei personaggi, nomadi che si possono ritrovare ancora oggi tra i musicisti di strada. Sono figure non soltanto condannate alla fatica di vivere, ma calate in un mondo di violenza: così Silvio per Nedda rappresenta la possibilità di fuggire da questa realtà. Mi pare che in Pagliacci ci sia un realismo più cinematografico rispetto a Cavalleria, che è invece un’opera più rituale.
Teatro, cinema, opera: con tutti questi ambiti di lavoro viene da pensare che anche per le produzioni in questione ci siano tante contaminazioni, magari anche inconsapevoli.
In tutta la mia carriera ho lavorato sull’immagine in generale: io sono prima di tutto un artista visivo. L’immagine è ciò dentro cui, in un secondo momento, sviluppo i personaggi e la storia. Nel caso dell’opera cerco di evocare l’immagine più dalla musica che dal libretto: di qui la centralità del coro per una partitura come quella di Cavalleria, e una chiave invece più movimentata, un po’ alla Testori, per l’articolata musica di Pagliacci. Questo dittico, con le differenze che ho accentuato tra le due opere, mi è particolarmente caro perché è un ottimo esempio di come lavoro. Per le mie regie non ho codificato uno stile immediatamente riconoscibile: parto sempre facendo tabula rasa per poi lavorare attraverso un intero arcipelago di stimoli diversi.
L’anno prossimo la Scala l’ha chiamata per La cena delle beffe di Umberto Giordano, altra opera dalle tinte truci. Si sente a suo agio con tutto questo verismo?
Non nascondo che quando la Scala mi ha proposto per la prima volta Cavalleria e Pagliacci ero molto preoccupato e avevo persino il dubbio se accettare. La ragione è che non è una musica che mi attrae immediatamente: ho dovuto lavorare molto per trovare una mia lettura di queste opere, per poterle guardare in modo personale e soprattutto più fresco. Dopo questo percorso La cena delle beffe mi interessa ancora di più, senza contare la sua origine teatrale nel dramma di Sem Benelli, nonché il film di Alessandro Blasetti del ’41: sembra la sintesi dei miei linguaggi artistici.
Sembra proprio che lei veda una continuità tra queste forme artistiche, film compresi.
Credo ci sia una linea continua che dal melodramma italiano, con il suo realismo e la sua forza di incisione, sgorga nel nostro cinema. E questa via realistica, a volte anche un po’ romanzesca, provo a farla emergere in tutti i miei lavori. Come ho fatto anche nel primo Verdi dell’Oberto, Conte di San Bonifacio nel 2013 sempre alla Scala: ovviamente si tratta di un realismo che nel 2015 deve essere rielaborato.
Grande successo di pubblico per i cantanti. Dopo le rinunce di Jonas Kaufmann ed Elina Garanča per Cavalleria rusticana, a una settimana dal debutto è stata annunciata la partecipazione di Stefano La Colla – già brillante sostituto di Aleksandr Antonenko nella Turandot di Chailly e Lehnhoff – e Violeta Urmana nei ruoli principali: molto più che sostituti e anzi, veri trionfatori della serata. Graziosa presenza di Oksana Volkova come Lola. Suggestiva, ma ormai accolta freddamente, la mamma Lucia di Mara Zampieri.
Quanto ai Pagliacci buona prestazione di Fiorenza Cedolins come Nedda, mentre è addirittura sgradevole il fraseggio di Marco Berti, un Canio con ancora tantissimo volume di voce, ma incapace di controllarla. Marco Vratogna è baritono per entrambi i titoli, musicalmente meno interessante di Simone Piazzola, Silvio nei Pagliacci.
Grossolana, la direzione di Carlo Rizzi ha sporcato il ricordo delle raffinatezze che Daniel Harding era stato capace di cogliere, soprattutto nella partitura di Mascagni. Imperdonabile per aver coperto l’ultima frase della Urmana «Oh! madre mia!»