Nella Sala delle Cariatidi vanno in scena gli arazzi commissionati da Cosimo I Medici, ovvero: la propaganda a suon di Bronzino, Salviati e Pontormo
È il 1537 quando Cosimo de’ Medici diventa, giovanissimo, duca di Firenze: ha solo diciassette anni. È figlio di Maria Salviati e di Giovanni dalle Bande Nere, uno dei grandi capitani di ventura negli anni tormentati delle Guerre d’Italia, al centro, qualche anno fa, di un bel film di Ermanno Olmi. Gli ultimi quarant’anni hanno visto, per ben due volte, i Medici scacciati dalla città e ora, per il giovane duca esponente di un ramo cadetto della famiglia, il problema è legittimare il proprio potere su Firenze.
E le commissioni artistiche, ça va sans dire, giocano in questa partita un ruolo fondamentale. Cosimo trasferisce la propria residenza in Palazzo Vecchio e dà il via a un’imponente campagna di decorazione: bisogna trasformare l’antico simbolo del governo comunale nella residenza principesca di un sovrano. Sui muri del palazzo si affaticano i maggiori artisti fiorentini del momento: da Giorgio Vasari a Francesco Salviati a Agnolo Bronzino; Michelangelo è ormai stabilmente a Roma e respingerà fino alla fine i tentativi di Cosimo di riportarlo a Firenze: solo la salma tornerà, pressoché trafugata, in Toscana.
È in questo contesto che nasce, nel 1545, la commissione dei venti arazzi con le Storie di Giuseppe, oggi riuniti in Palazzo Reale per la mostra itinerante Il principe dei sogni, curata da Louis Godart. I panni, divisi fin dal 1882 tra Firenze e il Quirinale per volontà dei Savoia, giungono a Milano dopo aver fatto tappa nel Salone dei Corazzieri del Quirinale; il tour si concluderà in autunno a Firenze, quando l’intera serie tornerà nella sala dei Duecento in Palazzo Vecchio, il luogo per il quale erano stati ideati e realizzati.
Il soggetto scelto dal duca è tutt’altro che casuale. Chissà quanto doveva rispecchiarsi Cosimo nella storia di quel giovane ebreo, ultimo nato, che diciassettenne (proprio diciassettenne) è ripudiato e abbandonato dai fratelli (leggi: Firenze), venduto schiavo, condotto esule in Egitto. Nonostante tutto riesce, con pazienza e saggezza e grazie alla capacità di interpretare i sogni, a guadagnare la fiducia del faraone e scalare fino ai vertici le fila dell’amministrazione statale. Giuseppe, ormai viceré d’Egitto, saprà mostrarsi magnanimo e perdonare i fratelli; così i Medici tornano benevolmente a guidare Firenze.
L’impresa è imponente e richiederà otto anni di lavoro: ben venti arazzi – tra i manufatti più ricercati e costosi dell’epoca – di grandi dimensioni e tessuti anche con fili di seta, argento e oro. Per realizzare la commissione, Cosimo decide di chiamare a Firenze due dei maggiori arazzieri dell’epoca: i fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher. Si impianta così, in Toscana, una manifattura destinata a sopravvivere oltre due secoli.
La regia dell’impresa è affidata a Agnolo Bronzino, il ritrattista di corte dall’eleganza glaciale; a lui il compito di elaborare i cartoni destinati a essere tradotti in tessitura. Accanto ad Agnolo, anche Francesco Salviati e Jacopo Pontormo, il maestro di Bronzino: negli arazzi tratti dai cartoni di quest’ultimo l’intensità drammatica e un poco allucinata si sostituisce allo sfarzo decorativo e muscolare che domina gli altri panni.
Nella cornice suggestiva della Sala delle Cariatidi, la storia di Giuseppe va così in scena, arazzo dopo arazzo, come in una grande opéra, tra scenografie maestose, folle di comparse (sbuca persino, oltre a Cosimo e la moglie Eleonora di Toledo, l’imperatore Carlo V), costumi sfarzosi; i trovarobe devono aver lavorato senza posa. Gli spazi maestosi della sala (assai poco affollati, purtroppo) ben si adattano alla dimensione del ciclo e permettono una fruizione ideale (anche se qualcosa in più si sarebbe potuto fare per l’illuminazione).
L’esposizione – alla fin fine – si esaurisce nell’ostensione dei panni, appena usciti da un complesso restauro pluridecennale. È, però, se non altro, l’occasione per riflettere sulla nostra difficoltà nel rapportarci con un genere – l’arazzo – tanto centrale nei gusti del passato quanto lontano dalle nostra abitudini percettive. È, soprattutto, la possibilità di ammirare riuniti i venti arazzi delle Storie di Giuseppe, uno dei capolavori dell’arazzeria cinquecentesca.
Foto: Jan Rost e Nicolas Karcher (su cart. di Agnolo Bronzino, Francesco Salviati e Jacopo Carucci, detto il Pontormo), Arazzi con le storie di Giuseppe Ebreo, post 1545 – part.