Siamo tutti perennemente in cerca d’autore: confessioni di uno spettatore di lunga memoria e mai sazio
Un po’ mi secca che, facendo due conti, mi perderò le opere della vecchiaia di Sorrentino e Garrone, l’addio alle scene di Latella, l’ultimo musical di Piparo, l’80mo compleanno della Dolce vita, l’Amleto con Elio Germano, Re Lear con Servillo e il centenario della nascita di Ronconi nel 2033 (forse questa ce la faccio) e chissà quante cose ancora, chissà dove e in che orari. Spero sempre in un abbonamento con una medium esperta di programmazione perché l’ossessione di vedere tutto ciò che il cinema e il teatro offrono, spesso bleffando ma fa parte del gioco, mi perseguita (siamo un gruppetto) da sempre, sia nel così detto repertorio leggero (ammesso e per niente concesso che il varietà sia minore) sia in quello alto e talvolta aulico di quella che una volta era chiamata la prosa, allora per distinguerla dalla poesia.
I due colpi di fulmine vengono da lontano, imprimatur adolescenziale, da una parte le ballerine della rivista che accarezzavano un bambino biondo in barcaccia che alla maestra della prima elementare cantò una canzone della Osiris; dall’altra il primo Cecov della domenica pomeriggio, pelle d’oca e sassolini cioccolatini nell’intervallo. Il primo Vania che non si scorda mai con Visconti regista, Morelli Stoppa Mastroianni e la diva Rossi Drago, coi latrati dei cani in lontananza, slitte, silenzi, lo scorrere del tempo, anzi del Tempo (poi verrà il sudario di tulle bianco del Giardino di Strehler), sul palcoscenico cinemascopico del Nuovo, dove oggi fanno arte varia ed origami col pene. Diceva Romolo Valli, grande attore del secolo scorso (ahimè, date alla mano, è così), l’untuoso prete di casa del “Gattopardo” per intenderci, che l’arrivo in camerino per lui ogni pomeriggio era una sicurezza perché “blindava” i suoi problemi personali trasformandosi nel trucco e negli abiti di un altro per cui fino a notte poteva star tranquillo (infatti morì in un incidente d’auto appena tornato se stesso fuori dall’Eliseo). E lo stesso accade anche allo spettatore, a quello patologico intendo, che raggiunge la sua poltrona, o il suo ingresso in piedi di una volta, gonfio di aspettative, psicosomatizzando il bene e il male, gli scandali e le polemiche, i trionfi e le delusioni.
I fatti degli altri, raccontati da Brecht, Shakespeare, Garinei e Giovannini, Wanda Osiris ma anche Arlecchino, la Mabilia, Fellini, Antonioni, Visconti, Strehler, Testori con le sue Arialde, Ronconi con le sue Infinities, Mariangela, ma certo anche Hitchcock, Resnais, Germi, Cukor, ecceterissima diventano nostra massima attenzione e distrazione (ossimoro?), un velo di protezione tra la realtà e quella finzione che spesso ci parla davvero delle cose della vita e con un alto tasso di inflazione artistica che ci portiamo dentro magari per sempre, se è il caso. I dividendi di queste emozioni restano in testa, in modo subliminale o attraverso mitiche vestigia come programmi di sala, poster, recensioni, quaderni gonfi di ritagli d’epoca. Ci sono famose pagine di Proust sulla sua attesa per andare ad applaudire la celebre Berma attrice tragica, esperta di versi di morte di Racine, che era un mix della Rèjane e di Sarah Bernhardt: “L’incanto sparso a volo su un verso, i gesti instabili continuamente variati, i susseguirsi di quadri, sono il risultato fuggevole, lo scopo momentaneo, il capolavoro mobile che l’arte teatrale persegue”. Roba sua, di Marcel.
Una volta entrato nell’incantesimo speri sempre che il miracolo si ripeta e non fa differenza si tratti di teatro o cinema, materie contigue, complementari, due terreni che si nutrono a vicenda e su cui non si può esprimere una preferenza. Essere o non essere presente? Voler vedere sempre tutto ovunque, questo è il problema, l’onnipresenza, che vale anche per i libri e più passa il tempo, ancora il Tempo, più ti accorgi che non basterà. Hanno ragione quei giovani che lamentano di dover vedere – come, dove, quando? – migliaia di film che noi abbiamo visto all’uscita, quindi grandi e non rimpiccioliti e nani su schermi improvvisati; e soprattutto sincronici e non diacronici rispetto all’epoca e al loro autore, il che è un elemento importantissimo e ineffabile.
Brutto pensare quando se ne va un grande, che attenderemo invano una sua opera, un suo testo o una sua regìa, che è ora di fare i conti perché la sua produzione si chiude qui e possiamo fare i bilanci del dare e avere artistico. L’ossessione di vedere tutto, ma anche insieme a tutti: a volte è commovente mostrare a qualcuno cui si vuol bene (a me è successo con Costanza) un film o uno spettacolo della cui straordinarietà siamo certi, come transfert psicogenerazionale, un tam tam.
Non è vero che ogni proiezione di film è uguale all’altra, perché cambia il pubblico, il soggetto pensante; così dicasi per il teatro in cui sono vivi anche gli attori e dunque l’attimo fuggente acquista una sua platonica evidenza emozionale fatta di suggestioni, occhi, gesti, suoni, rumori, parole. Pensare all’ora di inizio e di termine di uno spettacolo, immaginando commenti e plausi e resse all’uscita e al guardaroba (una volta) e corse alla metro o al tram. In fondo è sempre Pirandello che comanda: siamo sempre tutti perennemente in cerca di autore.
Foto di copertina di Figures Ambigues