Un preciso, buon allestimento della “Bottega” da parte di Maurizio Scaparro con Pino Micol nel ruolo di don Marzio e il venticello della calunnia e del pettegolezzo sull’onda del violino di Nicola Piovani
Un violino assiduo e ronzante volteggia come un bombo tra le porte e le finestre che danno sul piazzale veneziano dove si avvicendano i protagonisti de La bottega del caffè; fino al 21 giugno questa commedia goldoniana – risalente al 1750 – si offrirà allo sguardo del pubblico del Piccolo Teatro Grassi nella scrupolosa versione proposta dalla Fondazione Teatro della Toscana, diretta con una levità millimetricamente calcolata da Maurizio Scaparro.
Quel violino sopraindicato – i cui insistenti volteggi sono firmati da Nicola Piovani – è facilmente identificabile con l’onnipresente Don Marzio, gentiluomo napoletano interpretato con tutti i sacri crismi da Pino Micol, la cui carriera è intrecciata con quella di Scaparro fin dal 1972, anno in cui Scaparro dirigeva lo Stabile di Bolzano.
Don Marzio è un personaggio sgusciante, esasperante, incorreggibile (perché letteralmente non permette a nessuno di correggerlo)… e moralista, per soprammercato. Goldoni – che lo descrive nel modo più esuberante – lascia libero lo spettatore di associargli una parata di metafore, una nidiata di paragoni. Don Marzio è – come si è detto – il violino, o meglio il movimento del suo archetto, perché fa da spola tra casa e casa, tra locale e locale, tra vittima e vittima; si acquatta momentaneamente e poi riappare con una voce melliflua che, appena esercitato il proprio potere di persuasione, si ingrossa e si involgarisce.
È un rumoroso serpente a sonagli, ma è anche un orso: lo testimoniano una personalità grezza e prepotente, l’inclinazione a buttarsi a corpo morto sui suoi bersagli, nonché una sopraffina mancanza di tatto. È un orso su uno stagno congelato che, con le sue unghie acuminate, crea delle crepe nel ghiaccio e fa annegare coloro che lo circondano, restando a galla per miracolo.
Inizialmente è anche un fantasma, a dispetto della sua monumentale sfacciataggine: lancia un sasso dietro l’altro riuscendo sempre a tirare indietro la mano prima di essere scoperto, denunciando vizi e mandando alla deriva i rapporti di coloro che lo circondano. Attraverso il suo corpo invisibile, i suoi compagni di palcoscenico si prendono a cazzotti vicendevolmente, frenati faticosamente dal “nemico” più laborioso di Don Marzio: il probo e paziente Ridolfo, pacificatore per vocazione, interpretato da un cerimoniosissimo Vittorio Viviani. È lui il proprietario della bottega del caffè, e tenta di ricomporre ciò che Don Marzio si diverte a distruggere nei suoi voyeuristici trastulli.
Ad accapigliarsi per colpa delle illazioni e delle “soffiate” di Don Marzio sono personaggi di consolidata tradizione: uno stridulo figlio di papà, una moglie fin troppo virtuosa, un servitore linguacciuto, un biscazziere esperto in trucchetti criminali, un beffardo conte di ignobili natali, la sua degna consorte e una ballerina piena di ogni virtù, almeno vista frontalmente.
Ognuno di questi personaggi ha i suoi difetti e le sue magagne; ma, quando giunge inevitabile lo smascheramento del “disturbatore” Don Marzio, tutte le colpe vengono addossate solo e soltanto a lui: al suo esilio da Venezia corrisponde un’indulgenza plenaria per tutti gli altri peccatori, e nessun problema viene risolto, per quanto titanici siano gli sforzi di Ridolfo, che col suo caffè dona ai personaggi la forza di essere industriosi nelle loro scriteriate avventurette.
Venendo allo spettacolo in sé – tradizionale in senso buono – recitazione e regia collaborano per rendere assoluta giustizia alle parole che Goldoni mette in bocca a personaggi irrefrenabilmente votati a replicare i propri errori: le battute rimbalzano, prendendosi i loro tempi, da un orlo all’altro della scenografia elegantemente bidimensionale, mentre gli attori le assaporano con visibile voluttà. Ci manca solo il gemito di piacere dato dall’apprezzamento della degustazione: «Ahhh…!».
Perlomeno la stessa sensazione di rinfrancante godimento è condivisa all’incirca da tutto il pubblico: il servizio de La bottega del caffè di Scaparro è squisito.
Le chicchere tintinnano ritmate,
e gongolan dal testo titillate.
(foto di Filippo Manzini)