Il fantasma di Šostakovič incombe su Mariss Jansons, che il 25 giugno alla Scala dirigerà i Wiener Philharmoniker nella terza sinfonia del compositore austriaco
Sembra una battuta presa da Mary Poppins: «se mangi miele non devi aggiungerci lo zucchero». Invece è il motto che il direttore d’orchestra Arvis Jansons ripeteva a suo figlio Mariss, raccomandandogli di non cedere mai all’enfasi, di mantenersi sempre classico, soprattutto per quelle pagine in cui pare inevitabile esagerare.
Così Mariss Jansons (alla Scala il 25 giugno con i Wiener Philharmoniker) seguendo le orme paterne è diventato uno dei più grandi direttori d’orchestra di oggi. E il più discreto. Lettone di origine, come il padre assistente di Mravinsky a Leningrado, fu notato giovanissimo da Karajan che lo avrebbe voluto a Berlino. Le autorità gli impedirono di seguirlo, ma il leggendario direttore austriaco lasciò comunque tracce profonde nel musicista lettone.
Meticoloso nelle scelte, Jansons non ha mai affrettato nessuna esecuzione, non ha mai lasciato nulla al caso. Tanto che si è molto parlato di una sua possibile elezione come guida dei Berliner Philharmoniker, orchestra che si è identificata con Karajan per oltre trent’anni.
«La passione più ardente nello schema più rigoroso» dice di lui Lang Lang. Per Mariss Jansons la musica apre la strada alla spiritualità eterna. Il suo stile punta alla piena espressione dei sentimenti, alla diretta trasmissione delle emozioni: obiettivo non retorico ma onesto, sintesi di chi intende la musica come un linguaggio, con una sua sintassi e una sua semantica.
Inevitabile il confronto con il naufragar sinfonico dei post sinfonisti: signori come Mahler e Šostakovič, ma anche Sibelius, Honegger, Weill. Nella disgregazione dilatata della sinfonia, forma musicale per eccellenza, Mariss Jansons riesce a scandagliare ogni componente espressiva di queste cattedrali armoniche, sempre in bilico sul precipizio dell’atonalità. In lingua tedesca tale somma di addendi sfocia in un termine intraducibile: Wehmut, la malinconia di chi sorride tra le lacrime.
Alla Scala con i Wiener Philharmoniker Mariss Jansons porterà Mahler e la sua Terza Sinfonia: oltre un’ora e mezza di ascesa dalla natura all’amore universale, con il punto di appoggio dell’uomo nel quarto movimento, subito prima del salto finale, in cui il contralto – alla Scala sarà l’argentina Bernarda Fink – intonerà il Canto di mezzanotte dallo Zarathustra di Nietzsche.
Il Mahler di Jansons è quello sovietico, ascoltato negli anni staliniani e filtrato da Šostakovič, altro punto di riferimento del direttore lettone, così simile al compositore austriaco per prolissità creativa delle partiture, centralità etica dei contenuti musicali e consapevolezza delle possibilità di ogni strumento.
Šostakovič prima e Jansons poi “sovietizzano” Mahler per l’umanità che si ritrova nella sua musica: quell’alternanza di nobile e triviale, sacro e profano, una compresenza di elementi contrastanti, «sempre un attributo e il suo contrario» diceva Bernstein.