Andiamo a Venezia per dare un occhio alla mostra che racconta le opere ma anche l’interiorità dell’artista francese, mostro sacro del movimento pop europeo
Una retrospettiva monografica è un tipo di mostra che presenta spesso grandi difficoltà dal punto di vista curatoriale. Tutto può cambiare a seconda del punto di vista assunto: cronologico, tematico, stilistico e così via. Seguire una o l’altra di queste chiavi di lettura può essere la soluzione per inquadrare il lavoro di una vita di un artista, ma non si dovrebbero completamente trascurare le altre. Come mettere in evidenza con lo stesso rilievo un corpus così complesso e sofisticato quale la produzione di tutta una carriera nell’arte?
Caroline Bourgeois ci dà una risposta nella curatela della mostra su Martial Raysse in corso presso Palazzo Grassi a Venezia. Il materiale in esposizione è proposto senza particolari delimitazioni tematiche, in una sorta di continuum esperienziale di opere, in un discorso che abbraccia tutti i suoi media espressivi (pittura, scultura, neon, video). La disposizione cronologica viene rigirata a ritroso, in modo da iniziare dapprima il visitatore ai lavori a lui più vicini, per arrivare poi a toccare quelli più remoti. Atteggiamento, questo, che mette in splendido risalto la tendenza propria di questo artista a confrontarsi con i grandissimi esempi di artisti rinascimentali, risalendo all’indietro le vie della storia.
Così il percorso espositivo comincia nell’androne del palazzo con una serie di teche che contengono circa un centinaio di minute opere scultoree, tipiche dell’attività ricreativa di Raysse. Si prosegue poi con le spettacolari sculture a base di tubi luminosi al neon e laminati plastici, per passare poi ai dipinti di grande formato a colori acidi ricchi di particolari a volte critici a volte umoristici. Non mancano i suoi famosi ritratti serigrafici, a volte arricchiti dalla presenza di luci al neon, che creano un’interessantissima commistione di tecniche e suggestioni.
Al centro ci sta sempre l’artista stesso e la sua vita come opera, con un allestimento che instaura un dialogo ininterrotto tra opere ottenute con modalità e tecniche differenti, tra opere e vita, tra arte e altro, tra museo e ciò che sta fuori: “Ho sempre pensato che il fine dell’arte fosse cambiare la vita. Ma oggi l’importante, mi sembra, è cambiare ciò che ci circonda a ogni livello dei rapporti umani. C’è chi pensa che la vita debba essere copiata. Altri sanno che va inventata. Rimbaud non si cita, si vive”.
Martial Raysse, Venezia, Palazzo Grassi, fino al 30 Novembre 2015