In quattro mostre il suo occhio sulle trasformazioni della città e del suo modo di ritrarla. “Ogni cosa che si fa è frutto del lavoro di tutti”
«Milano è sempre stata avarissima di mostre con me e adesso le mie fotografie sono in quattro posti contemporaneamente: è qualcosa di stupefacente», dice Francesco Radino (Bagno a Ripoli, 1947), che, in effetti, in questi mesi estivi, complice la moltitudine di eventi culturali organizzati per Expo, ha conquistato la città con le immagini che ritraggono Milano. Al Museo della Scienza e della Tecnologia, esposte fino al 13 settembre, ci sono le 20 fotografie di Prospettive, volti e chiaroscuri, tratti dal volume Milano, pubblicato con Touring Editore lo scorso maggio. «Si tratta di alcune vedute della città, dalle piazze, ai giardini, ai monumenti più iconici», messe a confronto con vedute del 1906, che mostrano una Milano alla sua prima Esposizione Universale, che nasce e che offre, grazie alla prospettiva contemporanea di Radino, «una visione d’insieme» di Milano da Expo a Expo.
Un’altra personale, dal titolo Milano e i suoi musei, sarà visitabile al Castello Sforzesco fino al 31 luglio, contemporaneamente alla partecipazione a due collettive, l’eccezionale Italia INSIDE Out, a Palazzo della Ragione fino al 2 agosto, e Ieri oggi Milano, allo Spazio Oberdan, che raccoglie alcuni dei capolavori conservati dal Museo di Fotografia Contemporanea. In quest’ultima mostra «si gioca sulle epoche, partendo dalla fotografia di guerra e dai bombardamenti del ’44-’45, con Federico Patellani, per arrivare ai contemporanei, come Castella e Campigotto» e, naturalmente, Radino. Un viaggio tra i cambiamenti della città di Milano, ma anche «tra i cambiamenti del linguaggio fotografico, che è passato dal reportage di tipo più umanistico al vedutismo estetizzante di ultima generazione, che ha abbandonato pian piano la figura umana e i temi sociali».
Non è solo una serie di fortunate circostanze ad aver reso “ubiquo” il lavoro di Radino, che ha ritratto Milano per diversi anni. «Sono a Milano dal 1954: sono arrivato con la mia famiglia e ho iniziato a fare il fotografo qui, alla fine degli anni ’60», racconta. «Ho lavorato spesso sulla sua architettura, il suo paesaggio, la sua vita culturale, politica. È un lungo amore». E a trent’anni fa (1984) risale il primo libro sulla città commissionatogli da Touring Club.
«L’idea di rifare, trent’anni dopo, un libro su una Milano che sento molto più mia e più vicina mi ha fatto un grande piacere, anche perché sta per presentarsi a una platea di milioni di persone», mi aveva confessato qualche mese fa, quando ancora ne stava completando l’impaginazione e di Expo si parlava al futuro. Lo sguardo, trent’anni dopo, è cambiato, seguendo l’evoluzione della stessa città, «a partire dallo skyline e dai quartieri che prima non esistevano, sono cambiati i colori, le etnie, la composizione sociale della città». A molti il cambiamento non piace, ma, secondo Radino, ci si abituerà. «A me da ragazzino non piaceva il Duomo, ma è l’icona di Milano: se ami la tua città devi prenderla per come è». Ora che il libro è uscito, «sono molto soddisfatto di questa collaborazione, perché credo di aver trovato un perfetto equilibrio tra la mia visione e quella di Touring».
La sua è sempre stata una fotografia di committenza, per incarichi sia pubblici, sia privati, che non gli hanno impedito di far propria Milano attraverso una personale visione: «Lavorare su incarichi assegnati da altri non nega alcuna creatività. Spesso il committente non sa quello che vuole, si rivolge a un professionista creativo chiedendogli qualcosa, ma aspettandosi qualcosa di diverso». Se si è in grado di raccontare quel qualcosa e di renderlo visibile, attraverso i propri occhi, il committente sarà soddisfatto. E poi, non bisogna credere al fotografo che si proclama totalmente indipendente: «Il sistema dell’arte, di per sé, è già una committenza. L’artista non deve produrre per se stesso, ma per gli altri e per dialogare con loro».
Quando gli chiedo di raccontarmi del suo modo di vedere, Radino spiega che, fin da subito, ha cercato di discostarsi dalle due principali opzioni dello sguardo sui luoghi, quello documentario e quello reportagistico. «Il primo – racconta – risente di una visione che nasce dal Rinascimento e poi dall’Ottocento, che è rigorosa e vuol rappresentare in maniera “oggettiva” le vedute». Il secondo, invece, «ha sempre messo al centro dello sguardo l’uomo, come se fosse l’unico protagonista, semplicemente contornato dall’architettura, la natura e ciò che gli accadeva intorno. Io ho cercato di trovare una via mediana in cui, all’interno di una visione naturale, vigorosa e rigorosa dei luoghi, si capisce che essi sono abitati e vissuti dalle persone, che ne determinano anche la natura, ma senza che ci sia una predominanza umana».
I suoi personaggi sono in genere piccoli e lontani, «anche un po’ per timidezza: non riesco a stare addosso alle persone e le ho sempre concepite come una presenza all’interno del mondo, discostandomi dall’antropocentrismo». E allora Radino crea delle vedute, in cui gli uomini sono a volte presenti, naturalmente in relazione coi luoghi, ma senza che diventi un’ossessione.
In quest’ultimo lavoro su Milano ha trovato un luogo, come dire, preferito? «Non mi piace l’idea di avere un posto preferito. Bisogna vivere ogni posto come se fosse quello preferito. Allo stesso modo non ho un autore preferito: una volta uno, una volta l’altro, una volta tanti, una volta pochi. Bisogna liberarsi, guardare liberamente, sapendo che ogni cosa che si fa è frutto del lavoro di tutti: di quello che si è capito, che si è visto, che si è studiato, che si è osservato. C’è l’insegnamento di tutti quelli che sono venuti prima di noi: bisogna farne tesoro, ma non coscientemente. Bisogna che entri liberamente nella coscienza e nella conoscenza».
Nel suo caso, tra le influenze che sicuramente gli sono entrate dentro, c’è quella dei genitori pittori, in particolare del padre, sul quale sta preparando un libro che ne raccoglie le opere, insieme alle proprie fotografie. Nulla di ancora concreto: «C’è l’idea di fondo, un processo di pensiero, ricerca, concetti abbozzati. È quando si incomincia a mettere in pagina che allora il progetto prende corpo e quello che ne vien fuori spesso è qualcosa di molto diverso rispetto al punto da cui si era partiti».
All’inaugurazione della mostra Prospettive, volti e chiaroscuri, c’era anche Gianni Berengo Gardin, amico fin dal secolo scorso, insieme ai milanesi Ferdinando Scianna, Cesare Colombo, Tancredi Mangano, a Mimmo Iodice, e ancora a Toni Nicolini e Gabriele Basilico, che erano i suoi amici più cari. «Negli anni ’60-70 c’era molta voglia di condividere. Era un momento di cambiamento politico, in cui ci si confrontava sia nei contenuti che nei linguaggi, e poi, rispetto a oggi, eravamo in pochi».
Poi la città è cambiata e ha portato tutti a chiudersi in se stessi. Si è persa la voglia di discutere di etica e professione, di confrontarsi. «Quando è arrivato il liberismo sfrenato ognuno è andato per la sua strada ed è venuta meno l’esperienza della visione come condivisione». È anche colpa del computer, che «inchioda in studio e costringe a un rapporto solipsistico con la macchina, facendo perdere il parte il senso della materialità della fotografia e del rapporto con gli altri fotografi».
Ieri oggi Milano @ Spazio Oberdan fino al 30 agosto
Italia INSIDE Out @ Palazzo della Ragione fino al 2 agosto
Foto: Vista sui grattacieli della città e su Palazzo della Regione, Francesco Radino, 2015 – Milano da Expo a Expo