Un’altra mostra a Brera che non riesce a sollevare questioni, a porre domande, a dare risposte. Un piatto freddo, da carenza di risorse, ma che ci si poteva pure risparmiare. Ma forse non in tempi di Expo
I disegni sono bellissimi. Lo sono quelli della mostra Il Primato del disegno. I disegni dei grandi maestri a confronto con i dipinti della Pinacoteca di Brera. Dai Primitivi a Modigliani. Ma, per la sensibilità dell’uomo novecentesco, lo sono i disegni in genere – o come genere: l’abbozzo, lo studio, il tratto si sposano benissimo con un’estetica della genialità post-romantica mai davvero sopita ed anche con il fastidio verso la finitezza e il nitore, verso lo sfarzo e l’eccesso, verso l’ortodossia e l’oro di tempi che, dopo due guerre mondiali, ci sono sempre sembrati troppo lontani.
Fare una mostra con tanti disegni, insomma, è una scommessa già vinta in partenza. Eppure ci sono tante altre cose, oltre all’estetica, che possono non far funzionare una mostra. A cominciare dal titolo: lungo, barocco, ma assai eloquente. “Il Primato del disegno” rievoca gerarchie vasariane che sarebbe il caso, dopo 500 anni, di cominciare a rivedere, ma passi: il titolo chiamapubblico può essere utile, anche avesse ormai il valore storico-critico di “tanto ci va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”.
“I disegni dei grandi maestri a confronto con i dipinti della Pinacoteca di Brera”: dove sono questi confronti? Il primo corridoio della Pinacoteca, con tutto il suo significato storico e simbolico, spesso violentato da eventi temporanei di una Brera che non riesce mai a diventare Grande (non, questo, per colpa della Sovrintendenza), si trova costretto ad accogliere una serie costipatamente cronologica di disegni messi a confronto (più o meno palmare) con i dipinti sparsi per le altre sale della collezione permanente. Il confronto, qui, si limita ai due o tre centimetri quadrati dell’immagine a colori dell’opera finita riportata sul cartellino in calce al disegno.
Talvolta – è vero – i dipinti sono stati portati nel corridoio, ma solo quando il formato ne consentiva un agevole trasporto. Il che, se possibile, confonde ancora di più: o tutti, o nessuno, no? Non sarebbe stato meglio esporre i disegni accanto ai dipinti? Certo, avrebbe richiesto più soldi, più lavoro, soluzioni volta a volta diverse a seconda della posizione del quadro nel percorso espositivo. Ma solo così si sarebbero potute mettere davvero in dialogo opere finite e disegni, museo nascosto e museo aperto. Invece che un corner per appassionati del genere, la mostra di disegni avrebbe contribuito a rendere il museo davvero uno spazio educativo. E si sarebbe riuscito, per puro accostamento di immagini, a dire molto di più di quel che si può dire in una striminzita descrizione di due/tre righe che chiude i cartellini, e che, talvolta, contiene anche imprecisioni, generalizzazioni, conclusioni affrettate.
“Dai Primitivi a Modigliani”. Ma davvero, senza soluzione di continuità, si possono mettere cinquecento anni di disegni gli uni accanto agli altri? Per farsi, si può fare. Ma a che pro? A chi giova? Giova a Giacometti essere messo sulla parete opposta all’autoritratto di Bossi? Ma, pure per stare più vicini, giova a Raffaello stare (idolo, come sempre) in mezzo alla sala, tra Stefano da Zevio, Mantegna e Bellini e Leonardo e Boltraffio dall’altra? Non serve a nulla, nel senso che non serve a cambiare nulla di tutto quel che già sappiamo. E anzi, serve forse a trascinarsi incoscientemente dietro un’attitudine vasariana all’appiattimento del disegno sull’idea di album. Con tutto che Vasari, nel farlo, era rivoluzionario, mentre oggi i curatori sembrano vecchi di cinquecento anni.
Non è un percorso attraverso le tecniche del disegno, perché troppo confuso. Non è un percorso attraverso la storia, perché troppo approssimativo. Non è un percorso di confronti disegno-opera finita, perché non ce n’è, di opere finite. Non è un percorso attraverso le funzioni del disegno, perché servirebbe tutto un altro modo di impostarlo. E allora? Cos’è questa mostra? L’ennesimo piatto riscaldato che viene offerto alla tavola fredda di una Brera che non si capisce neppure se serva carne o pesce.
La colpa, certo, è della crisi. Non ci sono soldi. Ma fare mostre a man bassa per Expo non è un obbligo. E comunque esistono modi più economici di fare mostre più belle. Di certo questa mostra non fa parte di quelle per cui i soldi (pochi) sono stati ben spesi. Comunque vale la pena di andare, per le opere. Ma non basta.
Foto: Giovanni Antonio Canal, detto Canaletto Venezia: fabbriche di fronte alla chiesa della Salute (1730 circa) penna, inchiostro bruno e tracce di matita nera; 110×193 mm Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto Disegni e Stampe