A cento anni dalla sua scomparsa, Renato Serra è una figura poco conosciuta, ma che può avere ancora molto da dirci
“ E facciamo magari della letteratura. Perché no? Questa letteratura che io ho sempre amato, con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante, una delle cose più degne. “
(R. Serra – Esame di coscienza di un letterato)
Ogni volta che mi capita di leggere qualcosa di Renato Serra, mi stupisco e rammarico del fatto che la cosa più nota associata al suo nome sia un cavalcavia milanese pieno di autovelox.
La vita breve e defilata, la produzione letteraria discontinua e spesso inconclusa, le debolezze sul piano umano del “lettore di provincia” non bastano infatti a cancellare l’acutezza del suo sguardo e delle sue parole. Parole che ancora oggi, a cento anni esatti dalla sua scomparsa, sono in grado di raccontare con straordinaria efficacia la crisi del ruolo del letterato nel Novecento (e forse anche del Duemila…).
Oggi, 20 luglio 2015, ricorre il centenario della sua morte sul Monte Podgora. Credo sia una buona occasione per spendere qualche riga su questa personalità ambigua e affascinante, sempre tesa tra l’amore purissimo per la letteratura fine a se stessa (“dilettante” nel vero senso della parola) e l’ansia di intervento che agitava l’Italia negli anni della Grande Guerra.
Sulla fine del giovane cesenate, stroncato a trent’anni da un proiettile in fronte, parole e teorie si sono sprecate. C’è chi ha chiamato in causa il caso, chi la negligenza, chi l’eroismo e chi il suicidio. In particolare, quest’ultima ipotesi lo vedrebbe come un giovane irrazionale, voluttuosamente abbandonatosi alla guerra a fronte delle disavventure sentimentali e private. La morte eroica, viceversa, rafforzerebbe l’immagine di Serra patriota e di un suo cosciente e politicamente motivato interventismo.
A partire da questa estrema ambivalenza interpretativa, si può cominciare a ricostruire il dualismo che ha accompagnato tutta la vita del cesenate, sempre divisa tra “le muse” della cultura umanistica e “la sirena” dell’industria editoriale contemporanea (Cadioli, Renato Serra, le Muse, la Sirena in Letterati editori, 1995, pp. 69-85).
Da questo punto di vista, infatti, la vicenda di Serra incarna perfettamente la crisi del ruolo dell’intellettuale di inizio Novecento. A definirne l’importanza, interviene Mario Isnenghi nell’introduzione agli Scritti letterari, morali e politici (Serra, 1974, XIV): “Quella che è in gioco è la nozione stessa dell’intellettuale: i suoi compiti, il suo declinante ruolo sociale. Il più esposto alla crisi è il letterato […] che non ritrova più se stesso nella società industriale in via di sviluppo”.
Che può fare infatti di se stesso una brillante promessa dei licei di fine Ottocento, dopo una laurea a soli vent’anni sui Trionfi del Petrarca? Premesso che ormai non si vive più di sole Lettere, le strade possibili sembrano solo l’insegnamento oppure il giornalismo.
Nessuna delle due però entusiasma Serra, che soprattutto verso il giornalismo esprime giudizi molto duri: “il giornalista fabbrica il suo articolo per riempire un spazio genericamente determinato nelle colonne di un foglio; nella aspettazione o nella sorpresa di un pubblico reale egli sente le sue parole non in se stesse, ma nel pubblico, sulla bocca e negli occhi e nella mente di quel lettore di un istante” (Serra 1974, 226). Niente a che vedere con il lavoro dello scrittore, che “quando è puro […] conversa con se stesso in silenzio, e con le forme fantastiche verso cui ingenua vaghezza lo tiri” (Serra 1974, 225).
Del resto, se il giornalismo viene considerato negativamente, anche l’insegnamento è per il giovane una sorta di ripiego. Per lui, “insegnar grammatica o trovare un impieguccio a Cesena, oscuro e pigro” (Serra, 1853, 191) sono soluzioni ugualmente inaccettabili, prese in considerazione solo nei momenti di sconforto.
Un’alternativa allettante potrebbe essere allora il lavoro editoriale, cui Serra si rivolge più volte, spinto dalle necessità economiche: ecco allora le collaborazioni con Paravia per la compilazione di un dizionario italiano-latino, la cura di una collana di testi di filosofia per le scuole per Laterza, la monografia sullo scenario della letteratura italiana contemporanea per Bontempelli e Invernizzi. Da quest’ultima fatica del cesenate (le altre due collaborazioni non andarono a buon fine) nascono Le lettere, preziosa testimonianza sul sistema editoriale e letterario di inizio Novecento, visto dagli occhi di un “lettore umanista”.
Qui, nel primo capitolo, significativamente intitolato al Mercato letterario, Serra racconta le trasformazioni del libro, visto ormai come oggetto di consumo, le vendite in crescita, l’aumento degli editori e l’allargamento del pubblico alla piccola e media borghesia (“c’è la borghesia intellettuale, il pubblico del ‘Corriere’ […] i professionisti che non hanno rinunziato alla lettura, le signore che non vogliono dimenticare di aver avuto una buona educazione, le signorine e i ragazzi non completamente sportivi, tutta la buona media, insomma” (Serra 1974, 430).
Ma agli occhi del cesenate lo scenario è tutt’altro che favorevole. Secondo un movimento dialogico che caratterizzerà tutti i suoi più riusciti scritti (penso per esempio al saggio su Pascoli, a quello su Kipling, all’Esame di coscienza di un letterato), infatti, il critico ribalta il giudizio su quello che a un primo sguardo può sembrare un contesto di fermento culturale autentico, andando a esaminare “i particolari” del momento letterario presente, e smascherando la “mediocrità sconsolante” (Serra 1974, 382) dei prodotti letterari contemporanei. Infatti, “Quel che interessa, così ai lettori, come ai critici, è il valore generico, il nome, l’inquadratura, le formule astratte, che poi, bene o male si adattano sempre” (Serra 1974, 389 – 90).
Insomma, in Le lettere, Serra racconta il proprio disagio verso la superficialità dell’industria editoriale. Egli ha infatti intuito che, dopo l’affermazione della società industriale, i riferimenti tradizionali sono in crisi, e che il sistema letterario stesso sta attraversando una fase di profonde trasformazioni. La sua affezione al passato è, dunque, in questo senso, già carica di ironico rimpianto, già calata nella novecentesca crisi del ruolo sociale dell’Homme del lettres. Insomma, Serra appare consapevole con doloroso anticipo rispetto ai suoi contemporanei del fatto che la letteratura tradizionale non ha futuro.
Di fronte a tutto questo, la sua risposta è, almeno in un primo tempo, rifugiarsi nel ruolo di “povero umanista” di provincia. Dal 1909, quindi, accetta di dirigere la biblioteca Malatestiana di Cesena. Qui, nella sua città natale, con un impiego sicuro, Serra sembra aver finalmente trovato un rifugio sicuro dalle agitazioni e dai fermenti italiani ed europei.
Ma alcuni avvenimenti intervengono a sconvolgere la pigra quotidianità del giovane bibliotecario. In primo luogo i fermenti della situazione politica europea, l’avvicinarsi della guerra e, con essa, l’urgenza di definire il ruolo dell’intellettuale nella società. Inoltre, sul piano personale, la tormentata relazione con Fides Galbucci, conclusasi nel giugno 1913 con il matrimonio di lei con un altro uomo, gli provoca una fortissima delusione.
Questi eventi rivoluzionano completamente la vita e il pensiero di Serra, che vorrebbe sostituire il defilato “lettore di provincia” con una figura più dinamica e attiva. La vita a Cesena è un tormento di dubbi, inerzie e dolorosi ricordi, e diventa progressivamente insopportabile. Per questo, si fa strada nel giovane un inedito bisogno di attività, che lo porterà a una scelta definitiva in senso interventista.
Tale trasformazione, dalla scelta della letteratura per diletto a quella della dispersione nell’impeto della guerra, è perfettamente testimoniata nel più celebre testo di Serra, l’Esame di coscienza di un letterato, composto tra il 20 e il 25 marzo 1915 e pubblicato il 30 aprile dello stesso anno per le edizioni della «Voce».
Anche in questo caso, infatti, il ragionamento dell’autore è nettamente diviso in due parti: nella prima, Serra cerca di convincere se stesso del proprio “diritto a fare letteratura, malgrado la guerra”, affermato con De Robertis nelle prime righe.
Poi, però, con un improvviso scatto in avanti, assistiamo alla definizione in lui di una scelta radicalmente opposta: bisogna abbandonare la vita di prima, il diletto dei libri e delle muse, per perdersi nel flusso della guerra.
Quello che si fa strada in Serra è un desiderio di attività da tempo latente, desiderio di partecipare, nel senso di sentirsi parte attiva di qualcuno dei movimenti che vede e percepisce attorno a sé (“Mi son sentito sollevare tutto di passione e di speranza e di non so quale altro istinto profondo, a leggere le notizie – la guerra, e l’Italia svincolata, sembra – : e come andrei volentieri in Francia a lottare per la mia civiltà!” Serra 1953, 515).
L’ipotesi della guerra è quindi da interpretarsi non tanto come adesione all’ideale patriottico, quanto come “autonegazione in quanto intellettuale, […] abdicazione all’identità separata e liquidazione nel gruppo” (Serra 1974, LIII) .
In una parola, il bisogno di affiliazione sarebbe, per Serra, “espressione di disagio e di insicurezza personale, più che sviluppo di una coscienza collettiva con valori e norme comuni al gruppo”; detto altrimenti, “la crisi di identità dell’individuo e dell’intellettuale trova soluzione dell’abdicazione al gruppo» (Serra 1974, LII).
Nella conclusione dell’Esame trova quindi estrema soluzione il nodo arte-vita, che per Serra è sempre stato estremamente problematico: sul limite del conflitto, non c’è più spazio per l’analisi e la letteratura; per lui la vita e l’azione prendono definitivamente il sopravvento.
Immagine: Writing with a pen di Antonio Litterio