Il senso dell’America latina. Asì de simple

In Weekend

Tra viaggi, ritorni, case, libri, musica, cinema, inseguendo da una vita la risposta alla domanda “Se dico America latina”…

Cercando il senso dell’America Latina, operazione che richiede un certo sforzo di recupero della memoria, di ricostruzione, un salto a ritroso di qualche decennio per ripercorre un cammino accidentato, mettere insieme molti tasselli, credo di individuare il primo passo (o il primo senso, visto con il senno di poi) nel film El viaje del regista argentino Fernando Solanas: un giovane di Ushuaia decide di andare alla ricerca del padre viaggiando dalla Terra della Fuoco al Messico, viaggio nel quale incappa in una serie di avventure tra cui quella finale di trovare il padre ma, come nell’abusata metafora di Kavafis, il viaggio finisce per diventare il fine e non il mezzo.

Probabilmente non era solo il fascino dei luoghi ma l’idea della scoperta, il senso di avventura che si aggiungeva ai paesaggi poderosi, alle atmosfere allucinanti e grottesche, all’empatia dei sudamericani. Sta di fatto che cominciai a pensare che prima o poi avrei ripercorso le orme del giovane protagonista e quell’idea, che pescava in un terreno fertile, è diventata un chiodo fisso come se dalla sua attuazione dipendessero la mia realizzazione personale, la mia felicità. Ed è finito che l’ho fatto, il viaggio, non tutto insieme ma per tappe (ai tempi del film, nel 1992, avevo visitato vari Paesi della zona, ma con lo stesso spirito con cui viaggiavo in Africa ed Estremo Oriente, vale a dire che ancora l’America Latina non era una  passione): uno sterminato numero di tappe che mi ha portato in Centro e Sud America un centinaio di volte, o forse di più. Non voglio dire che il film di Solanas sia stato la causa, sto semplicemente cercando di trovare l’inizio, o la miccia. Qualcuna di quelle tappe è durata parecchio, per esempio ho vissuto un anno a Cuba durante il Período especial anziché il mese delle intenzioni iniziali (ma con i soldi e il visto di un mese) e in Cile tre anni contro i quattro mesi che avevo previsto. Esperienze che ringrazio, perché mi hanno insegnato a muovermi fuori dai contesti soliti senza perdermi, ad abbandonare qualche abbaglio di partenza e a diventare più clemente e meno radicale.

E ognuna di quelle tappe ha disegnato un senso suo, e tutte insieme hanno formato quel mosaico che è, oggi, il mio personale senso dell’America Latina: passato dalla leggerezza a un progressivo disincanto per arrivare alla maturità dei matrimoni oliati e alla capacità di decodificare e scindere. Perché l’America Latina sono molti Paesi e in qualche caso il collante è labile e convenzionale. Perché in Argentina e Brasile non solo si parlano due lingue diverse ma è profondamente diversa quella che chiamano idiosincrasia e che sta per mentalità, cultura: cos’ha a che fare la lievità del brasiliani con il malinconico senso della vita dei porteños, perennemente pronto a inabissarsi e alimentato dal ricorso generalizzato alla psicoanalisi? Che cos’hanno in comune lo spirito caribeño con la introversa cultura andina, la claustrofobica cilenità del Pais Pasillo (il Paese corridoio chiuso tra l’Oceano e le Ande) con l’impasto di violenza, vitalità sfrenata e incombenza della morte di molte zone di Colombia e Messico?

Eppure uno spirito latinoamericano esiste, e quell’integrazione a cui tutti aspirano non è utopia ma un sentimento radicato, per quanto danneggiato da rancori storici, razzie di territori (e qualche volta addirittura dell’accesso al mare, come nel caso della Bolivia che l’ha perso nella Guerra del Pacifico della fine dell’Ottocento e che non c’è verso riesca a riprendersi). Bolívar ci ha provato, ai tempi, e oggi perfino tra i capi di Stato più distanti il senso della comune latinoamericanità sancisce un legame che include un passato di colonia, vecchi complessi di colonizzati (più forte ancora nei discendenti dei conquistatori che considerano la propria presenza in quel continente come uno smacco della storia), una lingua comune e la soddisfazione di essere usciti dall’emarginazione con percentuali di crescita economica spesso sontuose. Vista da questa prospettiva, l’America Latina è un unico mondo meticcio di Paesi separati artificialmente, con inni nazionali simili e la comune passione per la star del rock Charlie Garcia, vulcani e terremoti gemelli e il peccato atavico di voler essere in fondo un’altra cosa rispetto ai meticci che si è, e cioè bianchi come i bianchi.

Il senso dell’America Latina è stato, per me, andare oltre la fascinazione del realismo magico (che poi non è molto diverso dal real maravilloso del cubano Alejo Carpentier in cui ho affinato lo spagnolo nel mio soggiorno all’Avana) per approdare a quel realismo senza magia che ha conquistato la letteratura a mano a mano che l’ambiente intorno si globalizzava, e che il paesaggio che ispirava quel modello si riduceva a poche enclave in cui, per un certo periodo, hanno continuato a pescare gli epigoni degli scrittori del Boom. Il senso dell’America Latina sono le storie trucidissime mischiate a sangue, efferatezza e morte della sottocultura centramericana della droga che pur sforando nel grottesco diventato a volte grandiosi fenomeni pop come i narcocorridos – o, nella versione più all’avanguardia, il movimiento alteradonati a Sinaloa e così popolari tra i giovani latini degli Usa che gruppi come Los Tigres del Norte, oltre a vendere milioni di dischi, hanno vinto ben sei Grammy.

Parte di quelle atmosfere si trova nei romanzi di quarantenni messicani e colombiani mentre la letteratura argentina oscilla tra le atmosfere metafisiche ereditate da Borges e le incursioni in una dittatura mai abbastanza elaborata e quella cilena spazia dai romanzi esistenziali alla fantascienza, esattamente come in tutto il mondo. Nascono di continuo festival di letteratura e cinema e quelli che già ci sono crescono di importanza come il Bafici di Buenos Aires o il Fidocs cileno fondato da quella gloria nazionale (ma residente da molti anni a Parigi) che è Patricio Guzmán, cronista dissidente del regime ma un po’ offuscato da giovani registi come Pablo Larraín che danno di quell’epoca una lettura più filtrata o non ne parlano per nulla come nel caso di Sebastian Lelio che preferisce dedicarsi, nelle sue opere, alla famiglia cilena e alla sua doppia morale, e ha vinto l’Orso a Berlino tre anni fa con Gloria (per essere precisi è stata la protagonista  a vincere il premio come migliore attrice protagonista).

Ed è così che partendo dal senso che ha per me l’America Latina ho finito per parlare delle sue molte culture e anime, cioè del loro senso ma non riesco più a trovare il mio. Perché il mio senso dell’America Latina, culturale intendo, potrebbe essere tanto il film Profundo Carmesi del genio messicano Arturo Ripstein che racconta come pochi lo squallore morale di una certa marginalità quanto l’emozionante, delicatissimo romanzo di formazione L’Avana per un infante defunto di Guillermo Cabrera Infante e il colombiano Andrés Caicedo che ha descritto, nel libro-culto Viva la Musica, insospettati ambienti urbani da gioventù bruciata prima di ammazzarsi nel 1977, a 26 anni e con una carriera già tracciata e probabilmente fulgida. O ancora i vagabondaggi senza scopo dei personaggi di Osvaldo Soriano in cui si mischiano (nel mio caso) meccanismo di identificazione e commozione per la prosa. Storie lontanissime tra loro in cui soltanto un antropologo troverebbe un filo conduttore mentre io posso abbozzare solo una somiglianza a spanna. Ma forse tutte queste cose non c’entrano affatto con il mio senso dell’America Latina che, a detta di un vecchio amico cileno ex mirista e regista coraggioso ai tempi della dittatura, è solo che “qui ti senti contenta, più contenta che altrove. Así de simple”. Vattelapesca perché.

Immagine di copertina: Laguna Cejar di Leandro Neumann Ciuffo

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