Impazzano le fotografie sotto l’ombrellone, e Walter Guadagnini ci guida attraverso il suo libro di racconti di grandi romanzieri – al centro: la fotografia
“I rapporti tra fotografi e letterati iniziano assai presto: nel 1839 il dagherrotipo viene presentato ufficialmente all’Accademia delle Scienze di Parigi, e già l’anno successivo, negli Stati Uniti, Edgar Allan Poe dedica un saggio a questo strumento, che ‘deve essere indubbiamente considerato come il più importante trionfo della scienza moderna, se non il più straordinario’. Da questo momento in poi, è un susseguirsi di prese di posizione da parte degli esponenti più noti della cultura letteraria internazionale nei confronti dell’immagine fotografica, da Flaubert a Ruskin, da Balzac a Gautier, da Whitman a Dumas fino a Baudelaire e alla sua celeberrima scomunica del 1859″ – dice Walter Guadagnini, titolare della cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna, che ha curato i Racconti dalla camera oscura, titolo azzeccatissimo che allude all’ambiguità di uno strumento che nasce come scientifico e si carica subito di una valenza misteriosa, oscura, appunto.
“Si tratta di un’antologia – continua Guadagnini – che raccoglie dodici autori, da Hawthorne a Calvino, che mostra come la fotografia e il fotografo diventano anche soggetti nuovi all’interno delle opere letterarie, e possono fornire una materia prima, totalmente inedita, agli scrittori. Il criterio e la difficoltà sono stati quelli di trovare racconti autonomi e non di estrapolarli da un contesto più ampio, come quello di un romanzo, in modo che avessero una loro organicità”.
Gli chiedo se c’è un qualche rapporto tra questa antologia e l’enciclopedia La Fotografia, in quattro volumi, che ha curato per Skira qualche anno fa. Risponde che i saggi monografici sono la colonna portante dei singoli volumi e seguono l’evolversi della storia della fotografia attraverso i libri e le mostre che ne hanno segnato le tappe principali, contestualizzandoli nel periodo storico. Il volume o la mostra presi in considerazione non sono dunque isolati dalla Storia, ma divengono i punti dai quali si dipana un’analisi più articolata del clima politico, culturale, scientifico all’interno del quale sono nati e sono stati presentati.
Nell’enciclopedia il centro dell’indagine è comunque sempre la fotografia, invece con questi Racconti dalla camera oscura si aggiunge un anello mancante, si ribalta il punto di vista: è l’occhio del letterato che inquadra la fotografia, che diventa il contenuto, l’oggetto della narrazione.
Basta teoria. I racconti sono una meraviglia.
“Tutti questi scrittori ripropongono sostanzialmente le posizioni e le convinzioni più diffuse nella cultura del tempo, reagendo con diversi gradi di stupefazione, entusiasmo o fastidio alle radicali novità proposte dall’avvento del meccanismo prodigioso in ogni ambito del sapere e dell’agire umano” – spiega ancora Guadagnini.
Si comincia con La casa dei sette abbaini di Nathaniel Hawthorne del 1851. Il protagonista, il dagherrotipista Holgrave, è il primo fotografo della storia della letteratura e incarna la natura negromantica, alchemica dell’operazione fotografica. Sin dall’inizio assistiamo a uno dei grandi paradossi della fotografia: il suo essere mero prodotto di processi meccanici, in quanto fissa le immagini col solo aiuto di ottica e chimica e, all’opposto, quello di essere una pratica di magia nera, che ruba l’anima del soggetto che riproduce. I popoli primitivi non volevano assolutamente essere fotografati dai primi antropologi perché temevano qualche sortilegio; oggi invece indossano i loro finti costumi tradizionali e inscenano finte danze tribali per offrirsi all’obiettivo dei turisti e cattare un paio di dollari.
Ma torniamo ai dagherrotipi di Holgrave: “La maggior parte dei miei ritratti ha un’aria sgradevole; ma ciò accade perché gli originali lo sono per primi. La semplice e limpida luce del cielo svela un intuito meraviglioso. Mentre noi crediamo che si limiti a dipingere la superficie esteriore, in realtà essa fa emergere il carattere segreto con una veridicità che nessun pittore oserebbe mai”.
Al centro del racconto, gotico, oscuro, tormentato, c’è il dagherrotipo scattato da Holgrave di un ritratto a olio di un antenato puritano, che a differenza del dipinto, che è sorridente e pacifico, ne svela il carattere crudele e meschino. Un pronipote gli assomiglia in modo impressionante e naturalmente lo fotografa. Misteriosamente si ripetono le stesse circostanze di vecchi delitti evocati o svelati dall’obiettivo di Holgrave, che si mantiene puro e idealista e alla fine meriterà l’amore di una degna fanciulla, unica erede della schiatta maledetta.
Anche nella pièce The Octoroom di Dion Boucicault del 1859 “l’apparecchio non può sbagliare… non commette errori”, che paradossalmente “è la frase chiave che ha permesso l’elaborazione delle più grandi menzogne fotografiche del XIX e XX secolo”, commenta Giadagnini. Per Boucicault il dagherrotipo invece di svelare il lato oscuro, documenta solo la verità. Durante un processo contro un povero ragazzino nero accusato da indizi schiaccianti di omicidio, il fotografo, con un magistrale coup de théâtre, mostra il dagherrotipo che è scattato all’insaputa del vero assassino e lo coglie nel gesto di colpire con una scure la vittima, scagionando il negretto su cui aveva riversato la colpa.
Nello struggente racconto Una donna di immaginazione di Thomas Hardy, Ella, sognate e insoddisfatta come Emma Bovary, scopre che la casa al mare che il marito ha affittato per caso appartiene al poeta Robert Trewe, che lei ammira moltissimo. Trova dei suoi versi inediti che sembrano composti per lei e una sua fotografia. Si strugge al chiaro di luna davanti al suo ritratto e… resta fatalmente incinta. Confessa ‘il tradimento’ all’ottuso marito, che non le dà retta. Il bimbo nasce ed è il ritratto di Trewe; il marito l’accusa; il dramma precipita.
Il soliloquio di re Leopoldo (a difesa del suo dominio in Congo) di Mark Twain del 1905, mostra Leopoldo mentre straccia delle foto di neri mutilati pubblicate su un giornale di Liverpool, che documentano le atrocità in Congo e sospira: “La Kodak è stata un’autentica calamità, per noi: davvero, il nostro peggior nemico…Agli inizi non avevamo nessuna difficoltà a costringere la stampa a ‘denunciare’ i racconti delle mutilazioni come frottole, calunnie…Sì, tutto filava piacevolmente liscio in quei giorni felici e si guardava a me come a un benefattore di un popolo calpestato e senza amici. Poi, tutto d’un tratto, ecco il patatrac! Appare l’incorruttibile Kodak!”.
Qui, con una sintesi e un’efficacia maggiore di qualsiasi analisi storica, la letteratura mostra quanto “Nei cinquant’anni che vanno dalla fine del XIX secolo all’inizio della seconda guerra mondiale, la fotografia si è trasformata, con l’avvento della Kodak, in una pratica di massa, e attraverso la diffusione della stampa popolare è stata fruita da milioni di persone in tutto il mondo” – scrive Guadagnini in La Fotografia. Una nuova visione del mondo 1891–1940, secondo volume della collana.
“Gli anni presi in considerazione, sono certamente i più importanti del XX secolo: l’accelerazione del progresso tecnologico, l’avvento dell’età della macchina e di quella della metropoli tra anni venti e trenta, le epocali crisi economiche a cavallo degli stessi due decenni, le rivoluzioni, le dittature e infine le due guerre mondiali hanno trovato nella macchina fotografica uno strumento di narrazione straordinario.
Attraverso la scelta di Bioy Casares, Cortàzar e Calvino si è voluto evidenziare il cambiamento di clima nella pratica e nella riflessione sulla fotografia che ha trovato in questi autori i suoi rappresentanti maggiori. Conta, senza dubbio, la matrice letteraria surrealista; conta evidentemente la riflessione di Borges sulle apparenze; contano le coeve esperienze degli artisti e dei fotografi con i quali questi racconti si intrecciano. Non è un caso che L’invenzione di Morel sia stato scritto nel 1940, e che abbia ispirato L’anno scorso a Marienbad di Alan Resnais nel 1961… Non è un caso che Le bave del diavolo sia stato redatto nel 1959, ma sia diventato noto a tutti grazie a Blow-up di Antonioni, girato nel 1966.
Tour de force geniali sui concetti di tempo, spazio, realtà, finzione, questi racconti accompagnano le riflessioni di una serie di fotografi attivi negli anni Sessanta e Settanta intorno alla natura dello strumento e del linguaggio.
…Non è un caso che nel 1940, con la nascita del Dipartimento di Fotografia all’interno del MoMA di New York, la fotografia venga definitivamente riconosciuta come arte: è la conclusione di un percorso durato cento anni, e, insieme, l’avvio di una nuova stagione”.
Racconti dalla camera oscura
a cura di Walter Gudagnini
Skira, pp. 199, € 15.
Immagine di copertina: Juan Antonio F. Segal