Intervista al regista e studioso Claudio Longhi, ideatore dell’iniziativa “Carissimi padri”: Modena (e non solo) al centro di un viaggio nel tempo dedicato agli anni precedenti al primo conflitto mondiale
Il 24 maggio di cento anni fa, è stata la guerra. La prima, mondiale. Per amor di correttezza, il conflitto scoppiò nel 1914, ma l’Italia si sarebbe consegnata al micidiale e traumatizzante evento solo l’anno dopo. Si sa: dopo le trattative di Compiègne, il mondo fino ad allora considerato si sottoponeva a un drastico riassetto che ne avrebbe scontornato e ridefinito i confini, le culture, le economie e lo spirito. Fare il conto delle perdite, tra trincee, cadute civili e vittime in generale del conflitto, è ormai poco elegante. Le conseguenze sociali, culturali e politiche si conoscono: ri-pensare in altre forme a tale smottamento, nel centenario della ricorrenza, è tuttavia una soluzione possibile.
Ci ha pensato Claudio Longhi, classe 1966, studioso, saggista e docente di Storia della regia e Istituzioni della regia all’Università di Bologna. Il suo è un résumé fitto di esperienze dalle molteplici sfaccettature, cui possiamo solo ingloriosamente accennare: alle attività sopra citate affianca infatti, con successo, l’impegno registico. Dopo aver lavorato a fianco di maestri come Luca Ronconi, Eimuntas Nekrošius e Franco Branciaroli, porta in scena tra gli altri (per Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro di Roma) La resistibile ascesa di Arturo Ui – con Umberto Orsini – e Il Ratto d’Europa, un progetto sviluppato a Modena con la finalità di confrontare il teatro con il pubblico, premio speciale agli Ubu nel 2013 per “l’impegno nel reinventare la funzione sociale del teatro”.
La sua attività di costante ricerca investe, con meticoloso studio, il rapporto tra teatro e spettatori senza dimenticare mai quello che si configura come reale valore di “comunità”, integrabile per ambedue le componenti e fondamentale per allacciare i legami tra le stesse. Uno studio, quello di Longhi, che quest’anno si fonde col centenario della Grande Guerra, che da un lato riesce a mantenersi fedele alle intenzioni del regista e docente, dall’altro risponde in maniera originale agli ipotizzabili “crismi della ricorrenza”: Carissimi padri è un’iniziativa, ideata da Longhi con un nutrito gruppo di collaboratori e l’ala protettrice di Emilia Romagna Teatro Fondazione, che ha epicentro a Modena e che – lungo un anno di incontri, laboratori e spettacoli organizzati sul territorio e per chi lo abita – racconta la Grande Guerra. O meglio, che lo fa a partire dalla Belle Époque. Perché? Lo abbiamo chiesto direttamente a Claudio Longhi, a sei mesi dall’avvio dell’iniziativa, in pieno giro di boa…
Parliamo del progetto a partire dalle origini…
Il progetto si inserisce sulla linea segnata dal Ratto d’Europa, e dunque con un’impostazione di teatro partecipato che si lega ad alcune esperienze pregresse di Emilia Romagna Teatro con Thierry Salmon e alla mia attenzione nei confronti del problema della formazione del pubblico, principale nodo per chi affronta l’esperienza teatrale oggi. Il ratto è stato il primo tentativo di sintesi organica di un lavoro finalizzato a ricostruire il rapporto con il pubblico, e a restituire al teatro una funzione di luogo d’incontro, dialogo e confronto per la comunità intera. Sulla base di quella fortunata esperienza abbiamo deciso di approfondire e articolare il lavoro, e da lì è nata la prima idea del progetto Carissimi padri, imperniato su due centri d’interesse. Il primo è rappresentato dall’attenzione e dalla cura indirizzate ai problemi strutturali di posizione di un teatro all’interno di una comunità, questione urgente oggi più che mai considerata l’evoluzione del sistema teatrale italiano, con l’entrata in funzione del Decreto Cultura e la revisione del meccanismo della stabilità, sostanzialmente.
Ovvero?
Se si ripensa e riorganizza la stabilità, capire come si collochi un teatro all’interno di una comunità è fondamentale.
E l’altro centro di interesse di Carissimi padri, invece?
Be’, si lega alla Prima guerra mondiale: abbiamo iniziato a pensare al progetto nel 2013, quando era già nell’aria l’approssimarsi del centenario. Abbiamo deciso subito di non ambire a raccontare la Grande Guerra: a tal proposito, infatti Walter Benjamin ha scritto delle pagine bellissime ne Il narratore – considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, sostenendo che «la Grande Guerra non è un’esperienza, e come tale non va raccontata». Parla di uno shock che ha azzerato la capacità di sedimentare un gesto o un’azione in esperienza: la guerra ha dato vita a un profluvio di resoconti, ma non è mai stato possibile raccontarla in senso forte.
Quindi avete deciso di non raccontare il conflitto.
Abbiamo deciso di ragionare e lavorare sugli anni che hanno portato allo scoppio del conflitto, dal 1900 al 1915, gli anni della Belle Époque. Un mondo totalmente schizofrenico, che stava incubando una delle più spaventose catastrofi del Novecento, e che viveva altresì un momento di effervescenza, di fede progressista e modernolatria altrettanto forte. Quando abbiamo concentrato l’attenzione in questa direzione, ci siamo resi conto di due fenomeni paralleli e complementari: l’argomento scelto era di incredibile attualità.
Cioè?
Se guardiamo a quell’epoca, scopriamo delle importanti affinità con quello che viviamo oggi. Sono anni, quelli del primo Novecento, di relativa pace: i conflitti sono spinti alla periferia del continente. C’è un gigantesco problema legato al rapporto con l’Oriente e l’imminente crollo dell’impero ottomano: oggi l’impero ottomano non esiste ma sappiamo quale focolaio di tensioni sia diventato il Medio Oriente. Esiste la fede cieca e incontrollabile, simile alla nostra, nella scienza e nella tecnica come capaci di tirar fuori dal guado, si azzerano le distanze con i nuovi mezzi di trasporto – così come noi azzeriamo le distanze, oggi, con la rete. E un’opinione che colpisce: alle origini della Prima guerra mondiale c’è il suicidio di una certa idea di Europa.
Quale idea?
All’inizio del Novecento resiste un senso di vera e fonda comunità europea. È abbastanza comune che le persone di una certa cultura parlino più lingue, è normale ritrovarsi artisti e scrittori in circuitazione a livello europeo, c’è una rete di scambi e traffici ormai alle porte della globalizzazione. Dentro questa realtà così “internazionale”, però, arrivano delle montate nazionalistiche che conducono questo modello culturale a disintegrarsi. L’interesse di casa prevale: pensiamo a quando la vocazione internazionalista del socialismo soccombe alla ventata di interessi nazionali del mondo tedesco, o di quello italiano. Su questo fatto ci dovremmo interrogare: l’Europa che stiamo vivendo è nata da quel disastro. Quando scoppia il conflitto è come se scoppiasse una seconda Guerra dei trent’anni, che comincia nel ’14 e termina nel ’44. Un unico corpus bellico con un momento di pace temporanea. La nostra idea di Europa è nata per tamponare quel disastro, ed è oggi sottoposta a nuove pressioni sotto spinte nazionaliste. Tutto questo complesso di considerazioni ci ha indotto a concentrare l’attenzione sugli anni precedenti al conflitto, per metterli al centro del progetto.
Arriviamo a Carissimi padri: organizzare un’iniziativa spalmata lungo un anno dev’essere parecchio impegnativa, a partire dai rapporti con la burocrazia e il territorio stesso… Come siete riusciti a intrecciare le intenzioni del vostro progetto alle dinamiche di tanti organismi locali?
Muovere una macchina così complessa, per un anno intero, non è facile. Quello che ha reso possibile l’attuazione del progetto è l’assoluta – e lo dico senza ogni retorica – convergenza di punti di vista tra il direttore artistico di Emilia Romagna Teatro, Pietro Valenti, e il nostro gruppo di lavoro. Emilia Romagna Teatro ha una vocazione progettuale a lavorare sul territorio, che ha quasi nel DNA. Una vocazione sulle basi della quale si è innestata il nostro desiderio di ricostruire un rapporto con il pubblico. Aggiungo un particolare tragicamente accidentale, ma che ha avuto un grande peso nello sviluppo dei nostri lavori: mi riferisco al sisma che ha colpito l’Emilia Romagna, e che ha determinato una forte volontà da parte di Emilia Romagna Teatro di forte presenza sul territorio, e che ha incontrato il mio sostegno nell’organizzazione di molteplici progetti e laboratori. Si sono così creati i presupposti per oliare il meccanismo di macchine complesse come quella di Carissimi padri, per le quali la capacità d’ascolto è prioritaria. La velocità dei nostri tempi ci porta spesso a trascurarla, ma per progetti di questo tipo è ideale aprirsi al dialogo con l’altro, ascoltarlo. Il progetto si sviluppa attraverso una rete di relazioni con le associazioni e istituzioni presenti, in vari livelli, sul territorio modenese. Dalla Fondazione San Carlo all’università di Modena, alle associazioni culturali, ai centri anziani, alle scuole, alle associazioni sindacali… abbiamo attraversato trasversalmente la comunità Modena cercando di essere aperti e recettivi. E nel dialogare con le istituzioni non siamo mai andati con un progetto pre-confezionato, ma con la voglia di capire come fosse possibile intersecare i traguardi e le idee di entrambi, per lavorare insieme in armonia.
Come si formula, in Carissimi padri, il rapporto con il pubblico, considerata anche l’esperienza del Ratto d’Europa?
Tra i due progetti ci sono elementi di discontinuità. Uno degli elementi più interessanti, e che nel lavoro ci appassiona di più, è che se Il ratto d’Europa parlava a un pubblico abituato a masticare teatro, Carissimi padri nasce dalla volontà di mescolare un pubblico che non sviluppa interesse teatrale a un pubblico che, invece, ce l’ha.
E come reagisce la comunità? In programma sono organizzati molti laboratori…
La reazione che abbiamo riscontrato a Modena è sempre stata molto positiva, anche sulla base di una originale metodologia d’approccio. Premessa: il vero grande problema del teatro è che rappresenti, a tutti gli effetti, un linguaggio. E, come tutti i linguaggi, lo si può apprendere per studio o per analogia. Quello del teatro non si parla più né per analogia – e non mi riferisco agli addetti ai lavori – che per studio, poiché il nostro sistema di formazione non consente che sia presente nei programmi ministeriali (questione che dovrebbe farci riflettere, ma questo è un altro discorso). Manca, in buona sostanza, una conoscenza diretta del linguaggio teatrale. La cultura del laboratorio, a partire dagli anni Settanta, è riuscita anche a prendere piede. Il tema però è che molti di essi sono costruiti per formare degli operatori teatrali. I nostri, invece, sono costruiti per formare il pubblico. L’obiettivo che ci poniamo non è di incontrare delle persone e formare o affinare le loro capacità attoriche e drammaturgiche: noi vogliamo che giochino insieme a noi per capirlo, quel linguaggio, in maniera da possedere gli strumenti per decodificare il teatro ogni volta che lo si vede. È una modalità d’approccio che va a insistere su un dato molto forte (e parlo della comunità nel suo complesso): è possibile che ci sia una flessione nella domanda di teatro se considero la domanda di teatro, ma non nella sua necessità, radicata antropologicamente nel DNA dell’uomo. Una sorta di bisogno di “rappresentazione” e comprensione che resiste nella comunità: ed è per questo che i nostri laboratori vengono accolti con slancio e positività da parte delle persone.
Organizzare una grande macchina come quella di Carissimi padri richiederà un enorme dispendio di energie, uno sforzo gigantesco dal punto di vista creativo e organizzativo…
Non vorrei sembrare retorico, e rispondo sinceramente: se parliamo di ostacoli o difficoltà tecniche, è chiaro che ci siano. Se è vero che con il nuovo regolamento dei teatri nazionali le cose stanno cambiando, non si può altresì negare che il tipo di proposta che facciamo è molto spostata rispetto alle prassi teatrali consuete. Il nuovo sistema marcia in direzione del nostro tipo di lavoro, fortemente radicato al territorio; ma su un teatro che è nato con una forte indole itinerante, come quello italiano, lanciare un progetto così legato alla stanzialità ha inizialmente generato qualche problema di incompatibilità tra le norme burocratiche di gestione e le prassi specificatamente lavorative. È stato necessario – e continua a esserlo – inventarsi delle soluzioni per rendere possibile lo sviluppo di certe iniziative. Se parlo da un punto di vista tecnico-pratico, l’organizzazione degli atelier, questi grandi laboratori collettivi per cui coinvolgiamo – per due giorni di lavoro e prove – centinaia di cittadini, e che restituiamo “pubblicamente” in spazi che di rado appartengono a teatri (uno, per esempio, l’abbiamo fatto all’interno del comune), può creare tensioni e problemi gestionali. C’è bisogno di un’enorme necessità inventiva: chi gestisce la macchina deve sapere come colmare ogni “buco” che si presenta. Le difficoltà si presentano continuamente, e producendo tanti eventi e copioni si è sempre in tensione per quanto riguarda la creazione artistica – espressione che mi fa da sempre impressione, ma tant’è -, con lavori faticosi e approfonditi di studi e ricerca. Se però per un momento prescindo dalle difficoltà quotidiane, e guardo all’orizzonte del progetto, ammetto che un momento di crisi – in senso forte – non l’ho mai vissuto, e per due ragioni.
Quali?
Perché questo progetto nasce come noi: ho avuto la fortuna di incontrare delle persone meravigliose, il teatro e il gruppo di lavoro, che ha deciso – con tutte le tensioni che possono nascere – di seguire tutto con trasporto ed energia. E per l’accoglienza delle persone: sono felice di vedere che gli attori cominciano ad avere una loro riconoscibilità pubblica a Modena, che prescinde fortunatamente ogni dinamica da stardom della notorietà e si lega solo al loro lavoro sul e per il territorio. Sono soddisfazioni, lo ammetto, che consentono di dimenticare con facilità tutte le notti in bianco possibili.
(Per le foto si ringrazia Giacomo Pedini)