L’industriale, il ricercatore, l’operaio

In Cinema, Weekend

Giuliano Montaldo, Davide Ferrario e Sydney Sibilia: dietro la macchina da presa davanti al lavoro in crisi

«Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi! Voi, al massimo potete andare a lavorare!» (Marcello Mastroianni in I soliti ignoti di Mario Monicelli)

Giuliano Montaldo, Davide Ferrario e Sydney Sibilia: registi italiani di diversa estrazione, età e stile, accomunati dalla voglia di fotografare il mondo del lavoro, vero motore di cambiamento delle vite prima, ora  attraversato  dalla bufera della precarietà e della disoccupazione. Ognuno a suo modo ha cercato di raccontare la genesi di un mutamento che ha causato una delle più grandi crisi d’identità della storia, in una paese impreparato ad affrontare lo sguardo e la richiesta di chi l’impiego l’ha perso o, peggio, non l’ha mai avuto.

Nel 2011 Montaldo diresse L’industriale, film tetro, quasi spettrale, capace di catturare l’instabilità (sia affettiva che lavorativa) cui è sottoposto un piccolo imprenditore piemontese. Un film che il regista di Genova ha voluto «senza colori (offuscati dalla nebbia torinese) e che è stato pensato prima dell’esplosione vera e propria della crisi». Una pellicola dalla doppia dimensione perché «la disperazione non esplode solo in fabbrica, ma coinvolge anche l’impotente ambito familiare». Davide Ferrario ha invece presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia il documentario La zuppa del demonio, un montaggio di immagini recuperate dall’Archivio Nazionale del cinema d’Impresa che raccontano la storia d’Italia attraverso la lente del progresso (e quindi inevitabilmente anche  attraverso il lavoro degli operai che fecero decollare le industrie del boom). Per Ferrario è stato «un lungo lavoro nato dal materiale d’archivio, che voleva essere rispettoso e mantenere la fedeltà del messaggio originario dei singoli spezzoni». Al suo debutto poi, Sydney Sibilia ha deciso di rivolgere il proprio sguardo al mondo dei ricercatori, precari cervelloni protagonisti della spassosa commedia Smetto quando voglio (2014). Il giovane regista dichiara (con le dovute distanze) di essersi ispirato «in fase di scrittura a I soliti ignoti di Monicelli, commedia brillante capace di trattare la più stretta attualità» e di «non aver voluto raccontare il precariato, ma la semplice storia ricorrente delle intelligenze sprecate (e non pagate) nel nostro paese».

Come bisogna raccontare il crollo della certezze del lavoro al cinema? Secondo Ferrario non c’è un taglio  né un genere particolare, anzi: «il lavoro è un’attività umana come altre, tutte le pellicole (anche se in modo diverso) parlano di vita. Che si tratti di commedia o dramma poco importa». Il regista di La zuppa del demonio  continua: «Non c’è un genere più adeguato, l’esempio più calzante sono i film di Ken Loach, diversi tra loro in cui spesso la riflessione è affidata alla risata. Non è detto che il documentario sia la via migliore per raccontare il lavoro, si può farlo anche usando toni astratti o grotteschi». Secondo Giuliano Montaldo invece «il documentario, che sembra la via più pura, purtroppo non ha grande diffusione, il cast di richiamo nei film di finzione serve proprio per attirare gli spettatori al cinema. Il documentario dona al regista una libertà immensa, che però, vista la scarsa distribuzione, rischia di essere fine a se stessa. Un messaggio moderato da una sceneggiatura è forse un pochino più facile da far arrivare al pubblico, soprattutto su un tema delicato come la crisi e la precarietà».

Il cinema è un settore anch’esso in crisi e coloro che vi lavorano sono spesso nella stessa situazione dei precari che rappresentano. Per questo, come sostiene Sibilia, oggi la settima arte cerca di distrarre la gente dalle difficoltà quotidiane: «il pubblico che va in sala non vuole pensare ai problemi, oggi bisogna intrattenere più che cercare la sensibilizzazione su certi argomenti. Un film impegnato con tema il lavoro è difficile da realizzare e deve essere perfetto in ogni sua parte per avere successo». Ferrario, d’accordo con il collega, spiega come anche in passato i periodi bui fossero accompagnati da una cinematografia “leggera”: «quando l’attualità è piena di temi così forti, semplicemente si tende a non parlarne. Le persone non vanno a vedere in sala i guai che devono affrontare fuori. Ad esempio durante la crisi del ‘29 negli Stati Uniti i generi in voga erano i musical, perfetti esempi d’intrattenimento spensierato».

Ci sono infine le considerazioni sul motivo per cui il cinema d’oggi non rappresenta più sullo schermo la classe operaia, nonostante essa balzi nelle cronache di ristrutturazioni e chiusure più spesso di altre realtà del lavoro. Per Montaldo « è una sorta di pudore misto a timore, in passato invece gli esempi si sprecavano: dal coraggio de La classe operaia va in paradiso di  Elio Petri, fino alla sottoscrizione degli operai di Genova per far uscire in sala Achtung! Banditi! di  Carlo Lizzani». Ferrario nota come «la classe operaia negli anni si sia prima ridotta numericamente e poi sia stata psicologicamente confinata in un angolo (conseguenza del post ’89). Se una volta in Italia c’era un filo diretto tra operaio, partito comunista che lo rappresentava e gruppo intellettuale vicino al movimento, oggi tutto questo è scomparso e gli operai sono rimasti soli». Candidamente Sibilia ammette: «siccome si racconta ciò che si conosce, io ho semplicemente conosciuto fino a ora più ricercatori che operai ».

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