Dal libro al film: “Il grande quaderno”, prima parte della “Trilogia della città di K” di Agota Kristof è finalmente al cinema
Appena entro in sala, di sabato, mi accorgo che siamo in pochi, non più di una decina; tutti sicuramente amanti del romanzo. Prendo posto, le luci si abbassano e aspetto trepidante l’inizio del film. Dura circa due ore.
Nel 2013, il regista Jánosz Szász, grazie all’acquisto dei diritti nel 2009, ha dato vita, insieme al produttore Sandor Söth, a un adattamento cinematografico della prima parte del libro Trilogia della città di K, intitolata Il grande quaderno. In italia arriverà due anni dopo.
Considerata la fama, e l’intensità della storia, non è stato difficile comporre un cast internazionale in arrivo da Ungheria, Germania, Francia, Danimarca e Austria. Ulrich Matthes, tedesco, interpreta il padre dei due gemelli, mentre a Piroska Molnár, ungherese, è affidato il compito di dare il volto alla nonna strega. Ulrich Thomsen, danese, è l’ufficiale tedesco che accompagna Lázló e András Gyémánt nell’interpretazione una e bina dei gemelli protagonisti.
La sceneggiatura è un tentativo, riuscito, di fedeltà al romanzo. Il primo fotogramma ci mostra i due bambini che dormono vicini. I loro respiri sono sincronizzati; sono Claus e Lucas, e i loro nomi sono il risultato di un anagramma di due vite che si riflettono in specchi deformanti di storie possibili, altre o improbabili, dove il dolore è sempre protagonista. Perché è solo attraverso di esso che si può davvero capire il mondo.
L’adattamento sembra a tratti ripulito e censurato, quasi a voler privare l’opera della crudeltà che la caratterizza. Anche le difficoltà dei due ragazzi nel villaggio senza nome, in cui in cui sono costretti a vivere per sfuggire alla guerra, sono smussate. “La piccola città” che i gemelli citano nel quaderno somiglia tanto a Csivkànd, un villaggio dell’Ungeria ‘privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono’ in cui nasce l’autrice: Ágota Kristóf.
Il grande quaderno è il primo racconto di quella che in seguito diverrà la ‘Trilogia della città di K’, scritto nel 1986 e edito in Italia due anni dopo, da Guanda, con un titolo diverso e discutibile “Quello che resta” successivamente abbandonato . “ Nel 1989 si aggiungerà La prova e La terza menzogna in quella che è tuttora l’edizione vigente, pubblicata da Einaudi nel 1998 e tradotta in oltre 30 Paesi.
Claus e Lucas sono i ‘figli di cagna’, come li chiama la nonna, costretti a fatiche quotidiane per guadagnarsi da vivere. Ogni sera riempiono le pagine del proprio quaderno con frasi meticolosamente oggettive perché è l’unico modo per scrivere la verità. Anche sullo schermo la maggior parte delle scene si concentrano sulla scrittura di questa sorta di diario, oggetto al quale è attribuito il compito di portare avanti la narrazione, anche attraverso animazioni realizzate a partire da disegni tipicamente infantili. I dialoghi sono quasi assenti e la sceneggiatura è un susseguirsi delle frasi del libro, adattate per il grande schermo. Frammenti composti da una o due pagine, parole brevi, scene che con il loro titolo diventano capitoli.
La forma originale del romanzo era infatti quella di un’autobiografia attraverso cui la Kristof, fuggita in Svizzera all’età di ventun anni, voleva raccontare la propria infanzia vissuta con il fratello maggiore. Intuite le potenzialità dell’idea, cambiò il suo nome e quello del fratello e trasformò i personaggi in due maschi e poi in due gemelli. Due ragazzi che decidono di sottoporsi alle prove più difficili per assuefarsi al dolore. Riescono a non mangiare per quattro giorni, si frustano nudi accompagnati da una lenta litania non fa male, non fa male, si urlano insulti vicendevolmente, carogna, figlio di cagna, imbecille, e poi bruciano ciò che potrebbe renderli vulnerabili: le dolci lettere della madre.
Le immagini di quei piccoli corpi ancora non formati ma segnati dalle cicatrici lasciate dalle cinte, scorrono dolorosamente. Claus e Lucas riescono a sopportare la morte della madre, avvenuta davanti ai loro occhi a causa di una bomba, e quella del padre, causata da una mina in un sentiero dove loro stessi lo avevano portato per riuscire a superare la frontiera. L’ultimo esercizio, il più difficile, sarà la separazione. La storia prosegue, nel romanzo, con la vita di Lucas nella nuova città, accompagnato da un’amante, dall’unico amico, e da Mathias, un bambino orfano e deforme che egli adotterà e che vivrà il disagio di essere più intelligente e acuto dei propri coetanei.
Diventerà scrittore, perché come la Kristof afferma con le parole del libraio Victor: “Ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia”.
L’epilogo ribalterà tutta la narrazione facendo emergere dubbi e ipotesi non del tutto risolvibili, svelando la realtà dei fatti e mostrando il labirinto che può essere ogni mente umana. E’ un libro crudele, capace di ferire fisicamente chi lo legge. Perché nessun velo viene posato a nascondere la tristezza della vita, in particolar modo quella di due bambini che si trovano a combattere con loro stessi e con i personaggi, egoisti e corrotti, che popolano il mondo attraversato dalla seconda guerra mondiale. Eppure Claus e Lucas non hanno nulla dell’innocenza tipica della loro età; sono consapevolmente artefici di atti crudeli.
Nel film i fatti terminano col superamento della frontiera da parte di uno dei due gemelli, esattamente come nel romanzo prima dell’inizio della seconda parte. L’orrore della guerra si percepisce a malapena quasi come fosse un rumore di fondo, e non la causa scatenante della storia. Le frasi della Kristof, brevi e concise, somigliano a lame affilate impugnate da bambini. Proprio da uno di questi, da suo figlio per l’esattezza, attinge la capacità di dar voce ai personaggi rendendoli quasi reali. Una voce che non trova riscontro nel ritmo lento dell’adattamento cinematografico, scandito da ogni nuova pagina del quaderno, come in uno schema che sacrifica l’impeto originario.
L’interpretazione degli attori si adatta molto bene alla storia, anche se il doppiaggio italiano non risulta convincente fino in fondo. E se, nella prima parte, il film trova più di un’intuizione felice, come quella di accostare un immaginario da fiaba alla desolazione del conflitto, o quella di contrapporre l’animazione artigianale degli appunti a uno scarno realismo d’ambiente, nella seconda resta il disagio sapientemente costruito nell’incipit ma risulta ormai sbiadito, spento. Nel complesso, resta una sensazione piacevole nel vedere finalmente attribuite ad un volto le voci di quei gemelli che tanto ho amato tra le pagine del libro, soprattutto se accostate ad una resa così fedele. Alla fine la reazione al film non può non mescolarsi a quella sperimentata per il libro e mentirei a non consigliarlo.
Ma come dice la Kristof …le menzogne non sono altro che cose inventate … storie che non sono vere ma che potrebbero esserlo.