Wilson-Nijinskij, che bella schizofrenia!

In Teatro

“Letter to a man” è lo spettacolo del grande regista texano con Michail Baryshnikov nei panni del ballerino legato a Diaghilev: può la follia essere profetica dei tempi?

“Letter to a man” è lo spettacolo del grande regista texano con Michail Baryshnikov nei panni del ballerino legato a Diaghilev: può la follia essere profetica dei tempi?

 

A Nijinsky, ormai delirante, era evidente di non essere Cristo e di non essere una scimmia, mentre davvero faticava a distinguersi da Dio.

«L’uomo è Dio e perciò comprende Dio. Io sono Dio. Io sono un uomo». Questo il suo schizofrenico sillogismo: frasi rubate ai Diari di un ventinovenne ormai folle, e che declinano il crollo definitivo del ballerino russo – interpretato al CRT da Mikhail Baryshnikov, fino al 20 settembre in Letter to a man con la regia di Bob Wilson.

Lo spettacolo impiega parecchi dei cliché del regista texano: lo sfondo azzurro di tante scene, l’asciuttezza pantomimica dell’azione, il trucco bianco sui volti inespressivi, le luci rarefatte che cristallizzano il palco. Ma la sua maniera inconfondibile – che ormai ha abituato, talvolta assuefatto, i pubblici di prosa, danza e opera – non potrebbe stare meglio che con questo soggetto.

Come in un caso clinico di Oliver Sacks, la deflagrazione psicotica di Nijinsky è descritta scenicamente con meticolosa lucidità. Spazio e tempo perdono di significato, in un universo post-beckettiano fatto di frasi paratattiche – diffuse in sala da più voci in inglese e in russo – che, contraddicendosi, non vanno da nessuna parte. Come se finisse il mondo, recita il titolo di un saggio di Eugenio Borgna sull’esperienza schizofrenica, un’espressione adatta alle visioni di Bob Wilson destrutturate da qualsiasi coordinata.

Smantellando gli apriori mentali di spazio e tempo, la logica di Nijinsky trova delle alternative non euclidee, non newtoniane, non razionali. Leggere i suoi Diari, scritti nel ’19, significa entrare in contatto con un esperimento narrativo che sarebbe riemerso soltanto quarant’anni dopo, in un finale di partita con alle spalle bombe atomiche e campi di sterminio. Adorno commentava che l’assurdo di Beckett fosse una reazione fisiologica alla storia recente: Nijinsky ha anticipato quel momento con la perspicacia della sua pazzia, e Bob Wilson l’ha rappresentato nella sua algida veste espressionista.

Ecco quindi le ragioni del non-divenire drammaturgico di Letter to a man, con la scena bloccata in un presente atemporale, accentuato dal suono di un metronomo ormai incapace di indicare lo scorrere del tempo e che ribatte sempre lo stesso istante.

C’è senz’altro del superfluo nello spettacolo, persino troppo lungo nella sua breve durata, e qualcosa di già visto: sedie ronconiane che traslano in verticale, messe anche sottosopra, suggestioni à la Magritte – botaniche e nei copricapo -, il gusto da cabaret berlinese del finale. Ma l’impercettibile cammino rettilineo di Baryshnikov, in avanti o indietro, su una pedana o sul palco nudo, tratteggia la «grazia innaturale» – diceva Battiato – di un artista il cui delirio è stato la ragionevole conseguenza di troppa sensibilità psicofisica.

Per curiosa combinazione MITO ha allestito negli stessi giorni l’opera Akhnaten di Philip Glass – il 15 al Piccolo in forma di concerto. Il compositore americano coinvolse proprio Bob Wilson nel ‘76 per la messa in scena della sua prima opera, Einstein on the beach, cui seguirono Satyagraha e appunto Akhnaten. E ritrovare nella partitura la stessa staticità fa sorgere il sospetto che questi lavori vadano più vissuti che capiti, facendosi cullare ritmicamente da una struttura metaforica autoreferenziale, che nasce quando si spengono le luci e svanisce all’uscita da teatro.

Letter to a man, con Mikhail Baryshnikov, regia di Bob Wilson

Immagine di copertina: © CRT Milano

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