“Ritorno alla vita” è un film di morte e ambizioni, dolore, religiosità. Riuscito a metà: intensi James Franco e Rachel McAdams, smarrita Charlotte Gainsbourg
Da sette anni, dai tempi del non indimenticabile Palermo Shooting, Wim Wenders non dirigeva un film di fiction. Da allora qualche corto e due capolavori documentari. Con Pina, dedicato al lavoro della geniale amica coreografa Pina Bausch, Wenders ha sfiorato l’Oscar, ma soprattutto ha dato senso e spessore al 3D. Poi è venuto Il sale della terra, sul lavoro dell’immenso fotografo Sebastião Salgado, di nuovo nominato agli Oscar, magistrale lavoro narrativo e drammaturgico pur in un’opera documentaria. Due titoli talmente prepotenti da aver fatto ritrovare la migliore verve creativa di Wenders, al punto che chi non ama particolarmente il suo cinema di fiction ha potuto affermare che finalmente il regista tedesco aveva trovato la sua chiave espressiva.
Ora il settantenne autore di Düsseldorf ha diretto Ritorno alla vita, quasi un titolo programmatico, visto che è tornato al primo amore: la fiction. Però ha tenuto a sottolineare che l’idea non era sua, è stato il film stesso che lo ha cercato. Tutta colpa, o merito, di Bjørn Olaf Johannessen, sceneggiatore norvegese che qualche anno fa aveva vinto un premio al festival di Sundance, con Wenders presidente della giuria, per la sceneggiatura di Nowhere Man. Riconoscenza? Stima? Affetto? Forse un po’ di tutto: così, tre anni dopo, Johannessen ha spedito la sua nuova sceneggiatura, quella di Ritorno alla vita, a Wim. Che se n’è subito innamorato, e l’ha tradotta in film.
La storia è quella di Tomas, uno scrittore in crisi creativa, praticamente smarrito in un paesaggio innevato, gelido. Anche il suo rapporto con la dolce Sara è in crisi. Tutto sembra precipitare. A maggior ragione quando con l’auto, incolpevolmente, investe una coppia di fratellini sbucati dal nulla su una slitta e ne uccide uno. Il senso di colpa è devastante. Dopo qualche tempo, Tomas fa anche visita alla madre, cercando, lui, conforto. La donna è come persa, ma per sua fortuna, essendo credente, riesce a parlare quasi serenamente con lui.
Nel corso degli anni – ne trascorrono una dozzina lungo il film – lo scrittore pian piano ritrova se stesso, la vena, il successo, anche sfruttando quell’episodio tremendo. In qualche modo vampirizza la vita vera, i suoi drammi, le sue tragedie, per farle diventare romanzo. La vicenda diventa così disagevole, ma l’intento è quello di non dare giudizi trancianti: perché se è pur vero che Tomas è un autentico stronzo nei rapporti con gli altri, quel grumo che lo opprime sembra forse poter giustificare alcune sue scelte. La questione è tutta morale.
Wenders, affascinato dall’uso precedente del 3D lo propone anche in questo caso. Solo che stavolta non ce n’è alcuna necessità, e la tridimensionalità non aggiunge nulla, anzi, come spesso succede nelle nostre sale, toglie luminosità allo schermo e crea impiccio. Quindi meglio vedere il film nella sale in cui è programmato in 2D, oltretutto costa meno.
Per interpretare il protagonista la scelta è caduta su James Franco, attore dal talento multiforme, che si manifesta anche come regista e scrittore. Il suo Tomas, un monumento all’egoismo, cerca peraltro di essere sempre benaccetto, gradito, amato come se gli altri non si rendessero mai conto della sua vera natura. Poi c’è Rachel McAdams, la dolce Sara che da lui vorrebbe un figlio, ottenendo in cambio solo metaforiche sberle in faccia, che saprà restituire fuor di metafora al momento opportuno. Svampita e smarrita tra i bricchi c’è poi Charlotte Gainsbourg, la madre single che si è sacrificata per allevare i due figli e ha dovuto subire la più straziante delle esperienze. Sullo sfondo Patrick Bauchau, presenza wendersiana per eccellenza, è il padre di Tomas, e ancora Marie-Josée Croze e Peter Stormare a completare il cast di un film non del tutto riuscito, ma che lascia trasparire qualche zampata da autentico maestro.