Autopsia di una città

In Arte

Aliqual è un progetto fotografico che racconta ciò che rimane di una città che non esiste più; ne abbiamo parlato con l’autore, Massimo Mastrorillo.

Sono passati sei anni dal terremoto dell’Aquila, ma è come se il tempo si fosse congelato. Un tempo sospeso in mezzo a calcinacci e a pezzi di una vita ormai dimenticata, dopo l’abbandono. Nessuno ha più voglia di raccontarli, o quasi.

Aliqual, di Massimo Mastrorillo, ci ricorda quello che abbiamo lasciato in mezzo alla polvere, senza la volontà di ricostruire, trasformando l’Aquila in un luogo di fantasmi e oggetti che non appartengono più a nessuno. La mostra, a cura di 3/3 e realizzata in collaborazione con D.O.O.R., conta 34 fotografie ed è visitabile gratuitamente presso la Leica Galerie di Milano fino a ottobre.

Massimo Mastrorillo, da Aliqual
Massimo Mastrorillo, da Aliqual

Aliqual, cioè L’Aquila dopo un gioco di infinite ripetizioni che portano al nonsenso linguistico, è un progetto che nasce sei anni fa da domande sul tempo che passa e su quello che resta. «Da subito, nell’indagare le conseguenze del terremoto – racconta il fotografo nato a Torino e che adesso vive a Roma – ho cercato di essere molto distaccato, di indagare il paesaggio, chiedendomi nella prima fase del lavoro, Temporary? Landscapes: cambiano davvero questi paesaggi, dove sembra rimanere tutto come prima?». Da quella fase, durata 4 anni, sono nati 200 manifesti in grande formato che hanno trasformato l’Aquila in una mostra a cielo aperto in occasione del secondo anniversario del terremoto.

Mastrorillo, impegnato già da diversi anni a raccontare conseguenze di catastrofi (per esempio quelle dello tsunami indonesiano del 2004 in Just Another Day o del disastro nucleare a Fukushima, in Life After Zero Hour), si è domandato tuttavia se il progetto sull’Aquila fosse veramente finito. «Le conseguenze del terremoto sono forse state meno eclatanti di quelle di uno tsunami, ma c’era spazio per una seconda lettura in chiave politica e meno letterale». Quei luoghi in rovina, pericolanti, inizialmente sorvegliati e dove fino a tre-quattro anni fa era vietato l’accesso perché mai messo in sicurezza, sono stati dimenticati dallo Stato, che ha portato avanti una politica «controtendenza e contro natura: gli abitanti sono stati costretti a spostarsi dal centro alla periferia, quando cent’anni prima, dopo un altro terremoto, erano stati consegnati loro i materiali e la possibilità di ricostruire da sé la città». Quei luoghi vengono vandalizzati da una generazione di giovani, «mezzi adolescenti che vanno lì per drogarsi, fare sesso, sentirsi trasgressivi». Non rispettano quel che è rimasto, forse perché ne hanno un ricordo limitato: avevano sei o sette anni quando ci fu il terremoto.

Massimo Mastrorillo, da Aliqual
Massimo Mastrorillo, da Aliqual

«Una città che non esiste: questa è la storia che andava raccontata», dice Mastrorillo, che ha condensato in Aliqual, di quei 6 anni, gli ultimi 8-12 mesi di lavoro. Rispetto ai progetti precedenti il linguaggio si è evoluto, necessariamente, seguendo le suggestioni di una conversazione con un aquilano, «che mi parlò della sospensione in cui si trovavano da anni», di un quotidiano che non esiste più. Gli abitanti migranti verso la provincia si sono riconosciuti molto in Aliqual: «Racconta quello che non vorrebbero più vedere, ma c’è ancora». Ecco i ritratti di una realtà parallela, «dove i ricordi non vengono ricordati e il tempo sta deteriorando ogni cosa»: dettagli, catturati all’interno delle case diroccate, da vicino, in verticale, un formato che riduce ancora di più lo spazio del fotogramma, e con il flash, come fossero «fotografie di un paparazzo». Ricordano quasi gli scatti di un medico legale sui corpi di vittime che non vedranno più la luce del sole, ma parlano della presenza dell’uomo senza mostrarla.

Massimo Mastrorillo, da Aliqual
Massimo Mastrorillo, da Aliqual

«Sono diversi anni che mi sono allontanato dal fotogiornalismo classico, cui ero ancora ancorato nel 2005-2008, quando mi occupai degli effetti dello tsunami in Indonesia», spiega Mastrorillo. «A Fukushima avevo già iniziato a sperimentare: dovevo spingere le persone a ragionare di più sugli effetti, non solo a mostrarli». In Aliqual il passo è ulteriore: una scarnificazione dell’aspetto estetico «che fa parte di per sé della fotografia, ma per me è del tutto irrilevante». Una ricerca dell’ordine nel disordine, forme geometriche, cerchi, triangoli, un metro nel tentativo di misurare. Un’evoluzione sempre più pop, che rinuncia alla didascalia, inutile, per spingere lo spettatore alla riflessione e portarlo a un livello di astrazione: quelle fotografie parlano di un luogo «che potrebbe essere il tuo: potrebbe essere la casa di chiunque». Aliqual rimanda alla crisi dell’Islanda, della Grecia, «dell’Italia che vive in un limbo da decenni: l’Aquila è un po’ il simbolo di tutto questo». Eppure l’astrazione non va portata all’estremo: «il rischio è che le persone pensino che ho usato l’Aquila per raccontare qualcos’altro: in realtà sono partito da quello per arrivare a pensieri un po’ più ampi».

Alla Leica Galerie troviamo 34 immagini di 88, che diventeranno un libro se l’operazione di crowfunding avviata con Eppela avrà successo. Iniziato il 15 settembre, in occasione dell’inaugurazione della mostra, e scadrà tra circa un mese. Per sostenere la pubblicazione di Mastrorillo, potete donare tramite il sito di Eppela. (http://beta.eppela.com/projects/4838-aliqual)

Aliqual, di Massimo Mastrorillo, Milano, Leica Galerie, fino a fine ottobre

Foto di copertina: Massimo Mastrorillo, da Aliqual

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