Il 28 settembre, in occasione della presentazione della sua creatura – il festival Illecite//Visioni – Rassegna di teatro omosessuale – il direttore artistico Mario Cervio…
Il 28 settembre, in occasione della presentazione della sua creatura – il festival Illecite//Visioni – Rassegna di teatro omosessuale – il direttore artistico Mario Cervio Gualersi ha esternato il suo moderato stupore per la relativa longevità di tale iniziativa, che è sopravvissuta fino alla sua quarta edizione.
Un “quattro” non è di quei numeri che fanno sembrare eclatante una ricorrenza, ma la sorpresa di Cervio Gualersi non era data da una sfiducia nel potenziale del suo progetto, che ha dimostrato a ripetizione di poter riempire il pur non immenso Teatro dei Filodrammatici; la ragione della meraviglia stava piuttosto nella sopravvivenza di Illecite//Visioni in un periodo che ha visto zoppicare, per mancanza di finanziamenti comunali, persino un festival storico come Garofano verde, nato a Roma nel 1994 per volontà di Rodolfo di Giammarco.
Per quanto sottoposti ad ogni tipo di suscettibilità e a una generale penuria di fondi, gli esperimenti di rassegne teatrali a tematica LGBT non mancano. Ecco alcune delle proposte “viventi”: nel 2003 è nato il Florence Queer Festival, un evento multidisciplinare in cui al teatro si affiancano cinema, fotografia e altre arti visive; in seno al Festival Gender Bender di Bologna si è attuato per la prima volta nel 2014 il progetto Teatro Arcobaleno, concepito per preparare gli studenti delle elementari e delle medie all’accettazione delle varie forme di diversità. Lo spazio che lo ospita è il Teatro Testoni, che aveva subito il battesimo del fuoco già nel 2013, quando una mite rilettura gay de La bella addormentata aveva sollevato le ire dei paladini della famiglia tradizionale. Infine, proprio all’inizio di quest’anno, diluita tra gennaio e aprile, si è tenuta la prima edizione di Occhiali d’Oro, rassegna organizzata da Approdo Arcigay Genova che ha avuto come location il Teatro della Tosse.
Una preoccupazione ricorrente, tanto per i responsabili della comunicazione di queste rassegne quanto per gli organizzatori e gli artisti implicati, è quella di precisare che il pubblico dei loro eventi non è solo e soltanto LGBT. Il sito di Garofano verde si gloria infatti del fatto che la rassegna sia riuscita a «mescolare le carte del pubblico integrando cultori e curiosi, spettatori coinvolti e frequentatori motivati esclusivamente dalla qualità». Anche il drammaturgo catanese Joele Anastasi, alla presentazione di Illecite//Visioni, si augurava che i suoi due spettacoli portati in scena al Teatro dei Filodrammatici (Io, mai niente con nessuno avevo fatto e Battuage) riuscissero a parlare anche ai cuori degli eventuali spettatori eterosessuali presenti in sala.
Se organizzatori e autori mettono le mani avanti, lo fanno col legittimo proposito di prevenire le illazioni degli esponenti di una fetta di informazione e di opinione pubblica a cui si rizzano i capelli in testa a vedere la sigla LGBT affiancata a una qualsiasi proposta culturale, e che – fingendo di avere a cuore la salute del pubblico omosessuale – ululano contro l’auto-ghettizzazione di tale pubblico, mentre probabilmente i loro cervelli vanno elaborando scenari apocalittici in cui anche il teatro diventa un veicolo di devianza. Questa paura – manco a dirlo – non è nuova: già nel ’94 Rodolfo di Giammarco, nei giorni dell’avvio della prima edizione di Garofano verde, affermava di aver ricevuto una lettera – verosimilmente inviata dalla direzione dell’Ente Teatrale Italiano – in cui gli si negava ogni appoggio all’iniziativa, definita una «rassegna settaria, ghettizzante e tendente ad esaltare la “diversità”».
In linea puramente teorica, questa ghettizzazione può sembrare controproducente anche per ragioni artistiche: se venisse a crearsi (in virtù di una singolare congiuntura astrale) un teatro gay, scritto, diretto e interpretato da gay per un pubblico gay, nell’ambito di rassegne gay con organizzatori e maestranze gay, si potrebbe temere che i drammaturghi e il personale artistico si adagino su un gramo livello qualitativo, nella certezza che il pubblico non diserti lo spettacolo, ridotto – in questo ipotetico scenario – al rango di espediente di socializzazione omosessuale, come se fosse una tombolata in un locale arcobaleno. Ma il teatro italiano è una vacca troppo magra perché gli artisti possano aggrapparsi alle sue mammelle con la speranza di guadagnarsi il pane spremendo la tematica LGBT sul palcoscenico: ciò non mette drammaturghi ed esecutori al riparo dalla mediocrità, ma almeno dall’annoso sospetto di fare del cinico sfruttamento di tematiche “di moda”.
Prendendo ad esempio la programmazione delle passate edizioni di Garofano verde, si osserva che la presenza di autori emergenti italiani – per quanto rilevante – non è affatto schiacciante, ed è compensata dalle apparizioni di molti nomi eccellenti la cui reputazione non è legata a spettacoli con la succitata tematica (Ricci/Forte, Pippo Delbono, Rezza e Mastrella). Inoltre in varie annate i programmi sono stati rimpinguati da reading di opere non teatrali dei letterati omosessuali nostrani (Testori, Pasolini, Tondelli); tuttavia gli autori di veri e propri classici che hanno spopolato anche tra il pubblico eterosessuale e che possono essere a buon diritto inseriti in un ipotetico calderone di teatro LGBT sono prevalentemente angloamericani (Alan Bennett, Mart Crowley, Terrence McNally, Harvey Fierstein).
Un altro dubbio che può insorgere a proposito di un fantomatico teatro gay italiano è questo: la tematica della “diversità” non è forse di per se stessa limitante, visto che costringe il drammaturgo a richiamarsi a una realtà problematica, nella quale il protagonista non può semplicemente agire ma deve confrontarsi di continuo con una “normalità” che lo accerchia? Vito Russo, nel classico saggio Lo schermo velato, risalente al 1984 e dedicato al cinema americano, si chiedeva quanto si dovesse aspettare prima di vedere dei film in cui il protagonista potesse essere “incidentalmente” omosessuale (e vivere come tale), ma agire come un qualsiasi altro eroe cinematografico.
Ebbene, così come il cinema di massa ha ottenuto dei risultati in questo senso, anche il teatro è riuscito a inserire l’omosessualità in un discorso più ampio e vario, magari addirittura umanitario, come ha saputo fare Tony Kushner con Angels in America. Ma non tutti i drammaturghi sono tenuti a comporre affreschi giganteggianti che parlino all’intera razza umana: ogni autore si confronta con la propria sensibilità, con la propria vocazione all’intimismo oppure alla magniloquenza. In Italia un drammaturgo non può non parlare di una realtà problematica, anche senza cadere nella trappola degli anacronismi e vittimismi. L’accerchiamento da parte della “normalità” non è un’invenzione drammaturgica. Sicuramente il campo d’azione di un autore, qualsiasi sia il genere che pratica, si restringe nel trattare questa tematica, ma le sensibilità individuali possono portare chi si avventura in questi terreni a dare luce a sfumature diverse delle stesse realtà, a sfuggire al cliché con una traduzione personale di vite che spesso si assomigliano le une alle altre… come quelle eterosessuali, del resto.
Illecite//Visioni, a cura di Mario Cervio Gualersi, fino al 4 ottobre al Teatro dei Filodrammatici
Immagine di copertina: La morte della bellezza al Teatro dei Filodrammatici