“The Walk” di Robert Zemeckis ricostruisce l’impresa del 1974 del funambolo Petit. Un viaggio verso l’infinito, sopra l’ignoto, per credere nei nostri sogni
In The Walk di Robert Zemeckis il filo è ben teso. Ad un capo c’è l’uomo, l’altro capo si protende vertiginosamente verso l’infinito del cielo. Il funambolo muove il suo primo, fatidico e decisivo passo, in bilico tra il vuoto dell’esistenza e la pienezza dell’essere. Lì, è solo con sé stesso: e mentre il suo corpo, la sua mente si abbandonano alla traversata, i pensieri volano leggeri, librandosi nel cielo. Ma poco a poco, lo sguardo concentrato e tenace, fa qualcosa che nessun funambolo dovrebbe mai fare: guarda verso il basso. Philippe Petit, rialzata la testa, non è angosciato, si siede e si rialza, avanza e si volta, accetta la sfida coi suoi limiti, in equilibrio con il rischio, in armonia tra vita.
Assieme a lui, noi pubblico assistiamo a una delle più incredibili imprese mai realizzate da un artista-equilibrista: il 6 agosto 1974, scortato da un gruppo di amici, decise di attraversare su un cavo lo spazio che divideva le alte cime delle ormai estinte Torri Gemelle di Manhattan. E lo fece con spirito anarchico, illegale ma caparbio e folle. Robert Zemeckis ci cala letteralmente nel suo sguardo, complice il physic-du-role di Joseph Gordon Levitt e disegna le atmosfere adrenaliniche e paradisiache di un sognatore estremo, che abbracciando il rischio seppe dare un tocco imprevedibile a qui due grattacieli, simbolo dell’economia e del progresso dell’America.
È uno sguardo nostalgico quello di The Walk, che ci ricorda quanto la trasgressione dell’Arte, a volte ai limiti delle regole e oltre, seguendo schemi propri, speso irrazionali, porti l’umano a vette di senso che ne aumentano la grandezza interiore. Qui il rischio non è quello degli investimenti economici, della politica, delle guerre: è il gesto pazzo di un funambolo francese che ha saputo dare un surplus di lustro umanistico al Sogno Americano, portandolo alla fragilità nuda di un corpo sospeso a 110 piani (e quasi 400 metri) di altezza.
Zemeckis ci ricorda anche quanto un leader abbia bisogno dei suoi compagni, e del sostegno degli affetti più intimi; e, non ultimo, del rispetto che in quanto performer deve con umiltà suo pubblico, alla società, i cui occhi sono il vero motivo delle sue imprese. Lo spettacolo è relazione anche quando si sfiorano le nubi, e le immagini del film, corroborate dalla consulenza in sceneggiatura dello stesso Petit, rendono al meglio le palpitazioni di un’azione condotta continuamente sul “filo” del fallimento, e caratterizzata da dubbi, incomprensioni, screzi, nervosismo, e da quel peso affossante di situazioni e pensieri che si possono risolvere, con fiducia e pazienza, a patto di riconoscere la propria piccolezza. Moltiplicando il coraggio. Un insegnamento umano che fa luce sull’incostanza di essere artisti: se quella vita all’inizio spesso non paga, prima o poi diventerà una guida nella difficile strada che ci porta a credere ancora in un sogno. Che può avverarsi, per tutti.