Una regia sobria e senza provocazioni quella del Flauto magico di Michieletto visto alla Fenice di Venezia. A parte lo shock di un Egitto incantato trasformato in aula malconcia
Questo ottobre tutti a scuola. Sparse per il Nord lavagne lunghe un palco intero, dal Carignano di Torino alla Fenice di Venezia: che sia prosa o opera, che sia Lavia o Michieletto. Ma se per il Galileo di Lavia ci si potevano aspettare gessetti, cattedre e formule, non si può dire lo stesso per la Zauberflöte del registar veneziano – alla Fenice fino al 31 ottobre.
Dopo la dichiarazione del suo presunto 7 dicembre scaligero 2016 – incautamente fatta da Valerio Cappelli – Damiano Michieletto debutta nell’ultima opera di Mozart, trascinando in teatro pubblico e critica con la solita suspense: cosa avrà combinato?
Ma in questa Zauberflöte di strano c’è poco, nonostante lo shock iniziale di vedere l’Egitto incantato del libretto di Schikaneder trasformato in un’aula malconcia e scrostata da scuola pubblica, ma con una tecnologicissima LIM su cui compaiono scritte e video in 3D, più che in un’università della Ivy League.
Per il resto la regia è pulita, sobria, e ha il merito di non limitarsi a sfruttare la trovata delle proiezioni, ma si sviluppa con coerenza lungo i due atti dell’opera. Inoltre niente stupri, niente provocazioni, niente scandali. Quasi una delusione!
Ironie a parte, lo spettacolo è intelligente perché aggira l’ostacolo del bivio un po’ ingrato di fronte a cui si trovano i registi di questo Singspiel: interpretazione favolistica o allegorico-massonica? Per Michieletto il percorso iniziatico di Tamino diventa un dibattito pedagogico tra istituzioni religiose e laiche: da una parte la repressione della Regina della notte e delle sue tre dame suore-istitutrici, dall’altra l’illuminato direttore della scuola Sarastro.
È una scelta che tiene conto di un percorso razionale settecentesco che ha in Mozart il suo culmine estetico. Ma Michieletto sa che la grazia mozartiana è piena di equivoci: come se la pulita creatività del salisburghese trovasse in sé il suo stesso contraltare. Così gli inni dei sacerdoti di Sarastro non sussisterebbero senza le ambivalenze tra le armonie palestriniane e lo stile classico, galante della melodia.
Mozart ha una vitalità aggressiva, «sovversiva» dice Rosen: c’è sempre un demone che guarda di sbieco da ogni suo brioso arpeggio. E Michieletto coglie bene queste ombre, ad esempio nel trionfo finale in chiaroscuro, con il bosco stregato à la Harry Potter dei sacerdoti – forse in debito con la trilogia mozartiana di Claus Guth – che ha ormai invaso l’aula scolastica delle prime scene: non vince la ragione, ma l’ambiguità della ragione.
La direzione di Antonello Manacorda è di alto livello e segue bene l’effervescenza quasi cinematografica dello spettacolo, che richiama il ritmo di certi film per ragazzi della mia generazione o di poco precedenti: dalle magie di Matilda sei mitica, alle dimensioni parallele de La storia infinita. Peccato per la fretta dei tempi di certi passaggi, come il quintetto del lucchetto del primo atto. In compenso è molto suggestivo il complesso duetto degli armigeri, con un fugato orchestrale reso con estrema precisione cui si sovrappone un antico cantus firmus luterano.
Ottimo il cast vocale, in particolare la Pamina di Ekaterina Sadovnikova, commovente in Ach, ich fühl’s, pagina più interessante e difficile di entrambe le arie della Regina della notte, interpretata da Olga Pudova con qualche difficoltà nella pulizia delle agilità “vocali”. Trionfo di Alex Esposito, navigato Papageno qui in versione di collaboratore scolastico e progenitore di una stirpe di deliziosi bidellini con scopetta. Fascinoso il timbro di Antonio Poli nel ruolo sempre un po’ scialbo di Tamino – meno del solito con questa regia –. Diversi problemi di intonazione e tenuta per Goran Jurić, Sarastro, che non sembra avere ancora l’autorevolezza vocale per sostenere arie come quella con il coro all’inizio del secondo atto.
Immagini © Michele Crosera