Nonostante l’ottimo Bill Murray, sornione e malinconico, “Rock the kasbah” si disperde tra satira e musical. Confermando il declino di “Rain Man” Levinson
Richie Lanz, protagonista di Rock the Kasbah di Barry Levinson, è un produttore discografico sull’orlo del fallimento. Nella speranza di racimolare soldi facili, trascina la sua ultima, sciroccata artista in Afghanistan per una tournée dedicata alle truppe statunitensi. La situazione però è talmente pericolosa che la giovane cantante scappa, lasciando l’agente in balia di ex detenuti dal grilletto facile, trafficanti d’armi, prostitute maliarde, guerriglieri afghani. In una precipitosa girandola di eventi, Richie si trova in un villaggio fuori Kabul dove una notte, per caso, sente cantare la bellissima Salima: è una rivelazione, forse l’occasione giusta per rilanciare la sua carriera. Riuscirà l’intraprendente manager americano a sconfiggere la durissima legge pashtun, che proibisce alle donne di cantare in pubblico, pena la morte?
Sembra inarrestabile la parabola discendente di Levinson, regista sempre molto prolifico (ha ben tre progetti in lavorazione per il prossimo anno), che non azzecca un film dal frizzante Bandits del 2001. Lontanissimi i fasti dell’Oscar per Rain Man e del cult Good Morning, Vietnam, cui questo ultimo film, nel suo connubio spregiudicato tra rock e guerra, parrebbe richiamarsi. Ma la verità è che Rock the Kasbah non ha davvero nulla della carica dirompente e trascinante dell’indimenticabile film con Robin Williams: fin troppo blando per potersi dire di denuncia e, allo stesso tempo, troppo sciapo per essere un ironico divertissement.
Ispirato (e dedicato) alla vicenda di Setara Hussainzada, prima donna afghana ad aver ballato e cantato in diretta tivù, di cui però vengono opportunamente taciute le ripercussioni sociopolitiche, il film di Levinson si apre con un convincente prologo californiano, pungente nella sua desolante amarezza. Ma appena si sposta in Afghanistan, Rock the Casbah inizia a perdere tono e lucidità: la sceneggiatura del solido mestierante Mitch Glazer procede per accumulo, senza una direzione precisa, moltiplicando le situazioni farsesche e i personaggi-macchietta, indecisa tra la satira politica, la commedia brillante e alcuni momenti da musical puro. E con in più una morale francamente odiosa: gli Usa, oltre alla democrazia, esportano sogni e femminismo. Un messaggio che prende corpo in maniera inaspettata man mano che ci si avvicina a un finale banale e fastidiosamente ecumenico.
Rimane, misera consolazione, il piacere di gustarsi Bill Murray in una prova, al solito, irresistibile. Cialtrone dal cuore d’oro, truffatore malgré lui, malinconicamente prigioniero di un passato glorioso che non è mai realmente esistito, questo Richie Lanz sembra cucito addosso a lui. Murray, mattatore incontrastato al centro di un cast di talenti illustri ma sprecati, gli regala il suo abituale sorriso sornione e lo sguardo di sognatore scanzonato. E riesce anche a strappare un sorriso quando intona una personalissima versione di Smoke on the Water, spacciandola per un canto tradizionale americano. In attesa di vederlo nel natalizio A Very Murray Christmas, diretto da Sofia Coppola, bisognerà accontentarsi.