Il doloroso, durissimo testo di Massini in scena al Piccolo Teatro Studio Melato: attuale e tragico
Due poliziotti, alti e ben equipaggiati, piantonano la porticina di un teatro dove è in programma uno spettacolo sul conflitto israeliano – palestinese, su un attentato e sul terrore. Evidentemente c’è preoccupazione per la sicurezza del pubblico, visto anche il tema trattato. Ciononostante si va avanti, perché così bisogna fare. Vivere nonostante.
Potrebbe essere la prima scena di uno spettacolo o di un film di attualità, ma la porticina è quella del Teatro Studio Melato, dove va in scena Credoinunsolodio, di Stefano Massini. Come se lo spettacolo fosse contenuto in un altro, molto meno ben scritto, in cui recitiamo tutti.
Quando ci sediamo in sala, il fatto è già accaduto. Un attentato suicida in un bar di Tel Aviv. La bomba è esplosa, intorno l’aria continua a tremare con l’eco della detonazione. Tavolini e sedie pendono dal soffitto, eternati in volo nell’istante in cui questo lavoro teatrale è ambientato. L’istante in cui il fatto di appartenere a questa o a quella cultura non ci differenzia più dagli altri, e la religione diventa mero fenomeno, al cospetto della bomba. L’istante in cui ci accorgiamo di interpretare tutti i ruoli, sia quello di chi aziona la carica (se è vero che sono i pensieri, la diffidenza e la paura che armano gli aerei e i kalashnikov) sia quello di chi non ha neanche il tempo di accorgersi che sta saltando in aria.
Noi stiamo ancora tremando per il 13 novembre di Parigi, e se il teatro deve reggere lo specchio al mondo l’immagine riflessa oggi è immobile e velocissima, come i centesimi di secondo del conto alla rovescia proiettato sul fondo scena.
Tre donne, tre monologhi interiori che si incrociano, specchiandosi uno nell’altro, diverse forme verbali di una medesima paura.
Le tre protagoniste, interpretate da Manuela Mandracchia, Sandra Toffolatti e Mariangela Torres, che firmano anche la regia, in un primo momento ci appaiono uguali. Poi si ricoprono dei loro segni identificativi e scopriamo trattarsi di Shirin, una studentessa palestinese che frequenta l’università islamica di Gaza, se ne vergogna come di un privilegio compromettente e intanto sogna di diventare martire, Eden, un’insegnante di storia ebraica, e Mina, che fa parte del contingente di guerra americano in Israele. Bisognerebbe dire “forze di pace”, ma pur sempre di un soldato si tratta. Sarà per questo o perché è occidentale che questo personaggio esibisce un’aggressività che le altre due, coinvolte personalmente nel conflitto, non hanno?
In ogni caso il suo è l’atteggiamento di chi guarda dall’alto, il grande sbadiglio per l’infinita ripetitività del conflitto. E non dovremmo sorridere, tanto meno ridere, quando sciorina giudizi e luoghi comuni sulle culture araba e ebraica, sui loro veli e sulle loro barbe. Eppure, se non ridiamo, a qualcuno un sorriso scappa.
Eden, l’insegnante, vorrebbe dar l’esempio. Lei prova a dire “Siamo tutti uguali”, si sforza di pensarlo, di crederci, fa parte dei comitati per il dialogo. Eppure si sorprende a desiderare la morte degli altri. Allora, per giustificare il suo odio involontario, si ripete che lei vuole solo “sicurezza”. E quanto le somigliamo, in questi giorni.
“Uno dei loro”, “Uno dei nostri”, così ripetono, parlando della stessa cosa, lei e Shirin, che intanto supera una dopo l’altra le prove per poter un giorno diventare martire. Eppure nei suoi occhi c’è una luce entusiasta, come se aspettasse di sposarsi, non di morire. E quando si troveranno faccia a faccia, in quell’istante, avranno il tempo di vedere che uno stesso pezzo di tela può essere sia un velo che uno scialle per ripararsi dalla pioggia, e quella bomba sarà, nelle parole di entrambe, “Fra me e lei”.
Questo spettacolo, arricchito dalle scene di Mauro De Santis, dalle luci di Claudio De Pace e dalle musiche di Francesco Santalucia, ci mette davanti alle nostre certezze, o a quelle che vorremmo lo fossero (per essere delle persone moderne e civili, al di sopra dei pregiudizi) e poi ci dice “Eppure”. Eppure siamo tutti uguali? Eppure abbiamo paura? Eppure possiamo continuare a vivere? Eppure. Usciamo, passiamo vicino a quei due poliziotti, e “domattina, con la luce” cerchiamo una risposta. Magari c’è.
(Per le foto si ringrazia Piccolo Teatro)