Del teatro dice Fabrizio (Gifuni)

In Weekend

Ciò che accade in scena, il rapporto con Ronconi, Pasolini e la responsabilità di lasciare una traccia: ” Ora tocca a noi” ci ha detto Fabrizio Gifuni sul divano di Cultweek

Il primo “divano”  di  Cultweek dedicato al dialogo con un protagonista del mondo della cultura italiana ha visto, lo scorso 14 novembre, il direttore Maurizio Porro intervistare Fabrizio Gifuni, l’ideatore e interprete dello spettacolo Ragazzi di vita, andato in scena a novembre al teatro Franco Parenti.  Al caffè -libreria Colibrì di Milano pubblico numeroso e interessato comprensivo tanto degli studenti di via Festa del Perdono quanto delle più âgées signore milanesi innamorate dell’attore romano. Lo abbiamo incontrato all’indomani degli attentati di Parigi e, a commento,  ha detto: «Bisogna continuare a fare il proprio lavoro per onorare così le vittime».

Dalle risposte che Fabrizio Gifuni ha dato ai nostri interrogativi sul teatro, sulla letteratura, da Pasolini a Gadda al drammaturgo Stefano Massini, e sulle questioni politiche e sociali del nostro paese, si evince una sua convinzione: è il sostrato del teatro a esserne il motore, è la sensazione che va oltre i suoi singoli elementi a dare senso e passione al momento sacro della ritualità teatrale.

Ecco alcune delle battute scambiate tra Maurizio, me e Fabrizio anche se la scrittura  non potrà restituire  i momenti in cui Gifuni diventa Luca Ronconi, imitandone a perfezione voce e modi, o in cui si trasforma in Pasolini, attraverso le parole dei suoi testi, imparati non tanto a memoria quanto, come direbbero meglio i francesi, con il cuore.

Come in passato  porti in scena un monologo, in questo caso Ragazzi di vita di Pasolini. La dimensione teatrale dei tuoi monologhi, però, è particolare: sono monologhi “a due”, sei “tu con Gadda” o “tu con Pasolini”. Come gestisci questo metodo di messa in scena? Si può sempre chiamare monologo?
Nonostante la forma di monologo dei miei spettacoli, ogni sera, al netto degli spettatori, non mi sento mai solo sul palcoscenico: ci sono altre cinquecento persone che stanno dentro di me. Il teatro è quel luogo in cui o succede qualcosa nell’incontro di corpi vivi o non succede nulla. Che sia un monologo, un testo scritto per il teatro o una riduzione da un testo letterario, quello che conta è quello che succede a teatro, poi vengono il testo e tutti gli altri elementi, la regia, la scena. Una delle poche cose che conta è se succede qualcosa attraverso un’esperienza fisica, che si trasmette in maniera scientifica, attraverso onde magnetiche. Da 2500 anni il teatro o è un rito, e riesce quindi ad attivare le dinamiche rituali che stanno sotto quel momento, o non è. Se non è rito, il teatro è qualcosa che ti dimentichi dopo qualche giorno, mentre, se diventa esperienza fisica, è qualcosa che ti rimane addosso e che ricordi anche dopo anni.

Che rapporto c’è tra il Capitale Umano di Paolo Virzì e Lehman Trilogy di Luca Ronconi? I tuoi due personaggi si assomigliano molto: quando Ronconi ti ha chiamato eri già preparato, avevi praticamente già studiato per l’interpretazione di quel personaggio.
C’è un bizzarro filo rosso tra il Capitale Umano e Lehman Trilogy ed è curioso che i due lavori siano venuti a una distanza ravvicinata. Quando Luca mi ha chiamato, gli ho raccontato che avevo appena fatto il Capitale Umano, che non era ancora uscito e i cui avvenimenti però sono ambientati tutti nei giorni del crack di Lehman. Il mio personaggio del film, Bernaschi, uno dei maghi della finanza tossica, si trova infatti per la prima volta con i numeri che non tornano proprio perché è crollata Lehman. Perciò il testo di Massini poteva sembrare, a me, il grande flashback del Capitale Umano. Ci potrebbe essere una continuità tra le due vicende, perché Lehman racconta la storia dall’Ottocento fino al crollo del 2008, mentre con il Capitale Umano si arriva a una delle tante storie italiane sugli effetti che la finanza globale e il capitalismo senza regole hanno prodotto in due famiglie.

Ci sono affinità evidenti tra il teatro di Ronconi e il tuo: entrambi siete spesso partiti dalla letteratura, dalla riduzione di romanzi o testi letterari. In cosa consiste questo vostro lavoro?
Io credo che questa affinità sia stata una delle cose che più ha concorso a determinare l’incontro fra me e Ronconi. Avevo incontrato Ronconi vent’anni prima in Accademia, ma nei venti successivi non ci eravamo più visti: lui non mi aveva più chiamato, né io ero uno di quegli attori che avrebbe fatto di tutto per essere in un suo spettacolo. A un certo punto però questa chiamata è arrivata, e la prima cosa che mi ha detto è stata proprio “Io e te abbiamo fatto Gadda”. Per me è stato un grande riconoscimento, anche se in realtà avevo avuto la netta sensazione che lui non avesse visto né il mio lavoro su Gadda né quello su Pasolini. Così gliel’ho chiesto, con impudenza, e lui ha ammesso “No, però so tutto!”. E credo ci fosse del vero in questo, perché lui in seguito mi ha detto che gli piaceva il fatto che io lavorassi da molti anni sulla lingua italiana e che fossi interessato al lavoro di drammaturgia. Effettivamente, il mio lavoro di drammaturgia consiste nel montare e smontare dei testi per inventare un testo nuovo, partendo da testi non teatrali, come Ronconi ha fatto infinite volte più di me, con saggi, romanzi, testi scientifici. E in questo ci siamo molto capiti.

Alla luce di quello che sta succedendo adesso nel mondo e partendo dal contrasto tra padri e figli di cui parla il tuo Na specie de cadavere lunghissimo, qual è il ruolo dei padri e dei figli oggi nella società?
Siamo in un periodo storico in cui quello che dovevano fare i padri è ampiamente consegnato alla storia. Se io penso a quello che hanno lasciato, nel grande teatro di regia, Strehler, Castri, Ronconi e penso a oggi, credo che oggi gli artisti che entrano in un teatro abbiano la responsabilità di entrare in luoghi che sono stati luoghi importanti e in cui sono successe cose importanti. È arrivato il momento di essere all’altezza della storia. I nostri padri, consegnandoci una Costituzione, liberandoci da una dittatura, dando un fondamento reale ai partiti politici negli anni ’50 e ’60, ci hanno consegnato qualcosa che, oggi, è completamente svuotato, distrutto. Noi adesso dobbiamo dimostrare a nostra volta, in quest’epoca di passaggio, che possiamo lasciare qualcosa alla storia. Ora è finita la stagione in cui ci si può opporre a qualcosa. Ora è come se il silenzio lasciato da queste persone ci dicesse «E ora che fai? Facci vedere». Non c’è più l’alibi di lamentarsi delle sei ore degli spettacoli di Ronconi: ora dobbiamo far vedere cosa possiamo produrre. Io sento questa responsabilità e so che i teatri in cui entro, come il Franco Parenti, sono stati vissuti da grandi registi e che, con questa consapevolezza, io lavorerò in un determinato modo.

Pasolini aveva individuato nella società dei consumi il “vero fascismo”. In Ragazzi di vita sono numerose le dipendenze dei ragazzi. Quali sono le dipendenze della società di oggi?
Pasolini definiva il nuovo fascismo come la civiltà dei consumi, partendo da una grande intuizione e sostenendo che il vecchio fascismo non fosse stato nemmeno in grado di scalfire l’anima del popolo italiano, mentre “questo nuovo fascismo tramite i mezzi di comunicazione non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata”. La società dei consumi non mette più delle divise, delle camicie nere, ma le divise che sono messe nell’anima non si levano più. Pasolini però non ha conosciuto la nuova era. Noi siamo in una nuova era, l’era della rete. «L’uguaglianza non è stata conquistata ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo» oggi tutti possono diventare qualsiasi cosa. Internet è come una piazza aperta in cui c’è tanto rumore e poi c’è una porzione di persone che vale la pena ascoltare. Ma dietro a tutto quel rumore c’è la sensazione che tutti possano fare, c’è la nuova democrazia. E in realtà, se una volta ci lamentavamo del fatto che dietro a un giornale ci fosse un editore, anche oggi ci sono “editori” molto più grandi che controllano i motori di ricerca su internet.

Come si intuisce da questo tuo commento e come  già era evidente negli scritti di Pasolini,  esistono ancora la classi sociali. Che aspetto hanno oggi ?
Le classi sociali ci sono ancora, è vero, ma è tutto molto più liquido. Già Pasolini negli anni ’70, quando abiura dalla Trilogia della vita dice “Io oggi non potrei più rigirare “Accattone” perché non c’è più un solo giovane che fosse nel suo corpo nemmeno lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in “Accattone”. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire con quella voce quelle battute, perché non soltanto non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle, ma non le capirebbe nemmeno”. Il sottoproletariato non era già più lo stesso, perché aveva preso altri sentimenti, altri modi di vivere, altri modelli culturali. La maggior parte dei piccoli crimini avveniva perché i giovani delle borgate romane erano disposti a dare delle sprangate, a lasciare una persona per terra per avere un oggetto della società dei consumi, per sentirsene parte. Mentre prima, negli anni ’50, uno delle borgate era fiero di essere diverso da uno come me che è nato a Prati, vicino Castel Sant’Angelo. Io ero un farlocco, lui era uno che sapeva come si stava al mondo e mai avrebbe voluto assomigliare a un borghese. Invece poi Pasolini, andando a leggere i segni, capisce che questi ragazzi cominciano a delinquere proprio per assomigliare alla borghesia.

Per l’immagine di copertina si ringrazia Maria Moratti

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