Laurearsi a 21 anni ? Legga qui, ministro Poletti

In Weekend

Quattro risposte al ministro su età e voto di laurea: quattro risposte che arrivano da chi c’è in mezzo, tra università e colloqui di lavoro o se n’è andato all’estero. E sa che in Italia i problemi sono altri…

Ci sono quelli che, come il ministro Poletti, sostengono che per trovare lavoro sia più importante laurearsi in tempo che con la lode. Hanno ragione. La costanza, la capacità di rispettare i tempi e il senso di responsabilità sono doti fondamentali in un’ottica lavorativa. Altri, come alcuni dei miei professori universitari, sostengono che finire in fretta non sia importante: ciò che conta davvero è concludere la propria carriera universitaria nel migliore dei modi, dedicandosi con passione al proprio percorso di studi. Hanno ragione. L’attitudine all’eccellenza, la capacità di approfondimento e la volontà di dare il massimo sono doti molto apprezzabili in un’ottica lavorativa.

Molti miei coetanei, d’altra parte, sono arrivati da tempo a queste stesse conclusioni. Consapevoli delle difficoltà che la nostra generazione incontra per trovare lavoro si sono laureati nei tempi e hanno preso 110 e lode. Tantissimi, inoltre, sono riusciti a laurearsi nei tempi, a prendere 110 e lode, a imparare una o due lingue straniere e a svolgere allo stesso tempo periodi di studio all’estero ed esperienze di stage. Sono tantissimi davvero: potrei elencarli per nome e cognome. Eppure pochissimi di questi miei coetanei hanno oggi un posto di lavoro che li soddisfa ed è in linea con le loro aspettative e con la loro formazione. Alcuni, un posto di lavoro non ce l’hanno proprio. Ciò che dice il ministro Poletti non è completamente sbagliato né completamente giusto. La sua analisi appare semplicemente molto lontana dall’individuare le vere cause del problema della disoccupazione giovanile in Italia. (Serena Cirini)

La recente affermazione del ministro Poletti secondo cui «110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più, si butta via del tempo che vale molto di più di quel mezzo voto» ha infervorato ulteriormente gli animi già scatenati sul dibattito laurea in o fuori corso, inclusi coloro per i quali l’università non è un ricordo poi così lontano.

Il valore del laureato non può basarsi su una semplice valutazione numerica se si laurea in tre anni perfetti: iniziando a 19, risulta molto difficile finire a 21… Un discorso simile per il fuori corso con 110 e lode: prendere 25 in certe facoltà, è già una conquista! E coloro che hanno cambiato corso di laurea dopo un anno o due, dovendo ripartire da zero? E i laureati che scelgono di proseguire gli studi con la laurea magistrale o ulteriori specializzazioni con i master, a volte entrambi, per tentare di avere qualche chances in più nel mondo lavorativo? Sono troppo choosy?

Sarebbe da domandarsi piuttosto quanto e se tutte le università preparino realmente al lavoro futuro dei laureati (non solo tramite seminari e laboratori), e quanto il mondo del lavoro sia disposto ad accoglierli, non solo con offerte di stage o contratti a progetto. Forse, gli studenti più motivati sarebbero incoraggiati a finire nei tempi previsti. E magari con tanto di lode! (Luca Colangelo)

Gentilissimo ministro Poletti, mi sono sempre chiesto cosa spinga certi politici a furoreggiare in numeri comici degni del miglior vaudeville, di tanto in tanto. Lei, in nemmeno ventiquattro ore, si è prodigato in una invidiabile sequela di commenti degni del miglior capocomico. Perché vede, ministro, io non ho intenzione di confessarle l’età in cui sono diventato dottore. Non ho intenzione di diventare soggetto di uscite pubbliche, numero adatto a statistiche fuori luogo, esempio positivo – o negativo, a seconda dei casi – di una prossemica buona solo per stuzzicare polemiche di alcun valore. Ministro, quando lei dice che a un colloquio non si viene valutati “per ciò che si sa, ma per ciò che si è”, giustifica – spero in maniera involontaria – una serie di cattive pratiche che da anni hanno vampirizzato e tartassato il mondo del lavoro giovanile (ribadiamolo, ché non è un concetto astratto) nel nostro Paese. Non le dirò nemmeno quanto sia fuori luogo chiosare sardonici su orari di lavoro inutili, su voti finali di laurea, su questioni che sono proprie dell’intimità più discreta del popolo che una funzione pubblica come quella da lei esercitata dovrebbe tutelare. Perché vede, ministro, prima ancora che attraverso la pertinenza delle proprie azioni pubbliche, l’eleganza di un uomo si misura soprattutto dalla sua sobrietà. Ma quest’ultimo è un elemento a cui – siamo franchi – lei e molti dei suoi colleghi non ci avete mai abituato troppo. ( Giuseppe Paternò di Raddusa)

Le parole del ministro Poletti sono bel lungi dall’essere un capolavoro di comunicazione politica e sono giustamente suonate irrispettose a chi le ha intese come un’accusa nei confronti dei giovani italiani, come un’attribuzione di responsabilità per l’enorme difficoltà a trovare un lavoro. A prescindere dalle intenzioni del ministro, che ha prontamente dichiarato che questo non era il senso delle sue parole, la sua dichiarazione apre delle questioni importanti. In un paese in cui la disoccupazione giovanile si aggira intorno al 40% i problemi sono chiaramente in larga misura altri, dalla generale situazione economica alla distanza tra il mondo della formazione e il mondo del lavoro. Ci sono, e non sono pochi, ragazzi che si sono laureati in tempo e con il massimo dei voti che faticano a trovare lavoro, o a trovarne uno all’altezza delle proprie competenze e aspettative. Queste considerazioni però non devono divenire motivo per non intraprendere una seria riflessione su come i ragazzi affrontano il proprio percorso universitario, specialmente per quanto riguarda i tempi. Alcuni, in riposta alle polemiche degli ultimi giorni, hanno addirittura sostenuto che i ragazzi dovrebbero tutti laurearsi a 21 anni e con 110 e lode. Questa opinione riflette la situazione di un mondo del lavoro immaginato quasi esclusivamente per le eccellenze, in cui per fare quasi qualsiasi tipo di lavoro sono richieste più qualifiche e più competenze del necessario, e di una retorica sociale in cui il merito è l’unico metro, in cui solo gli estremamente meritevoli possono e debbono avere accesso alle opportunità. Bisognerebbe, invece, costruire un mercato del lavoro che riesca ad accogliere diverse competenze e diversi livelli di competenze, di pari passo con un’università in cui si usano davvero tutti i voti e che davvero differenzia tra i suoi studenti. Discorso diverso però va fatto a proposito dei tempi: esclusi circostanze straordinarie e  studenti lavoratori, sarebbe opportuno riformare il sistema in modo tale da disincentivare il fuoricorso e fornire agli studenti i servizi e il sostegno necessario per laurearsi in tempo. Troppo spesso purtroppo la possibilità di prolungare il proprio percorso universitario diviene ragione, e allo stesso tempo, causa di una certa mancanza di iniziativa da parte di alcuni  nella ricerca di altre opportunità ed esperienze formative e lavorative, che potrebbero rivelarsi fondamentali per il proprio futuro professionale. (Costanza Porro)

 

P.S. Giusto ieri il Censis  nel rapporto 2015 ci ha raccontato di un paese in letargo, confuso e insicuro rispetto al futuro, che non investe: e tra i giovani addirittura il 43% si sente inquieto, con un retroterra fragile. Meditate, ministri, meditate.

Immagine di copertina: Università bene comune di Roberta

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