“La mia patria era un seme di mela” di Herta Muller non è propriamente un’autobiografia in forma di intervista: si tratta piuttosto, come recita il sottotitolo, di una conversazione.
Non è solo alle cose per cui possediamo parole che pensiamo: così Herta Müller in Mein Vaterland war ein Apfelkern, pubblicato in Italia il mese scorso da Feltrinelli e recentemente presentato dall’autrice a Milano nell’ambito di BookCity. La mia patria era un seme di mela non è propriamente un’autobiografia in forma di intervista: si tratta piuttosto, come recita il sottotitolo, di una conversazione. A dialogare con la scrittrice è la consulente editoriale Angelika Klammer, ma il testo avrebbe potuto senza difficoltà essere ridotto ad un monologo.
Non pensare là dove non devi.
La scelta del dialogo probabilmente non è casuale: le battute dell’interlocutrice rappresentano un minimo di voce fuori campo, necessaria perché la Müller possa osservarsi dall’esterno e raccontare in prima persona, senza i “trucchi letterari” del romanzo, la propria vita sullo sfondo del regime di Ceaușescu. La dittatura rumena è l’elemento centrale di quella Storia che la scrittrice afferma di aver visto “dappertutto, una volta uscita dal suo villaggio e dalla sua famiglia”, anche dopo l’emigrazione in Germania; ai non detti e al senso di indistinto propri del regime, l’autrice contrappone tuttavia la certezza che ogni individuo è “un risultato”, sì, ma individuale. Herta Müller ha oltrepassato il confine della pagina per dare corpo ai suoi pensieri irriflessi sul passato, che abbracciano il paesaggio triste dell’infanzia e i trascorsi ingombranti dei genitori, ma anche la paura dopo il suo rifiuto di collaborare con la polizia segreta, l’isolamento sociale e gli interrogatori, accompagnati dalle rime create lungo la strada per esorcizzarli (da quest’ultime è tratto il titolo del libro).
C’è un lasciapassare morale per il dolore che si è vissuto?
La risposta della Müller, risolutamente negativa, è implicita nell’atto stesso di ripercorrere l’esistenza scomoda condotta in una patria che, letteralmente prima che metaforicamente, non parla la sua stessa lingua (la scrittrice, come è noto, apparteneva alla minoranza tedesca in Romania). La mia patria era un seme di mela è un racconto che si ha la tentazione di leggere di corsa, assecondando il ritmo quasi brusco della memoria, della ricostruzione delle “vite rubate” e delle domande che è in primo luogo l’autrice a rivolgere a se stessa. Il rischio più consistente, in questo senso, è quello di concentrarsi sull’aspetto aneddotico; specialmente per chi, come me, è nato dopo il tramonto del comunismo sovietico, l’‘invito alla riflessione’ è però diretto e pungente. Senza scadere nella retorica, Herta Müller affronta temi non più inconsueti nella letteratura contemporanea, che chiamano in causa i nodi irrisolti di ogni vicenda nazionale, affidati alla nostalgia riflessa ma non negata delle vicende individuali e all’influsso della natura personale sui meccanismi della memoria
Non si vedeva nulla in nessuno.
Nessun accenno al premio Nobel del 2009: il racconto, del resto, si concentra sul prima. L’ordine è all’incirca cronologico, o per lo meno consente di distinguere tre fasi principali: l’infanzia, la persecuzione politica in patria, l’emergere – sotto varie forme – dell’urgenza della parola scritta, molto prima che l’Accademia di Svezia facesse notare al mondo che Herta Müller «con la concentrazione della sua poesia e la franchezza della sua prosa ha saputo descrivere il paesaggio dei diseredati». Ci resta addosso una sgradevolezza di natura estetica, quella stessa sensazione che portiamo a casa dai viaggi ormai di tendenza nell’Europa dell’Est. Abbiamo imparato che quell’estetica programmaticamente “annullata”, ovvero l’uguaglianza nella bruttezza, costituiva l’aspetto più evidente di altre e ben più gravi forme di annullamento. Ai protagonisti spetta il merito e il peso di trasformarle in racconti, con la convinzione che “protetti dalle frasi si sappia un po’ meglio come vivere”.
Immagine di copertina: Romanian revolution – 1989